L’Antimafia dell’antipolitica

Disgraziati i giustizialisti, perché saranno giustiziati. Ecco cosa abbiamo pensato di fronte al triste finale di una campagna elettorale già brutta abbastanza, che nei suoi ultimi strascichi politico-giudiziari arriva ora addirittura al grottesco. Tanto per cominciare, lo scontro tra Rosy Bindi e Vincenzo De Luca, vale a dire tra la presidente della commissione Antimafia e il neoeletto presidente della Campania, entrambi del Partito democratico, non si concluderà all’interno del partito né del gioco democratico, ma in tribunale. De Luca ha infatti risposto all’inserimento del suo nome nella famosa lista degli impresentabili con una denuncia per diffamazione, attentato ai diritti politici costituzionali e abuso di ufficio. Ma questo, forse, è persino il meno.

Il fatto più grave, di cui Rosy Bindi è la prima ma certo non l’unica responsabile, è che si è solennemente affermato il principio secondo cui un’accusa ha lo stesso valore di una condanna, un sospetto lo stesso valore di una sentenza, carte giudiziarie di ogni genere lo stesso valore di un regolare processo. Questo è l’unico vero risultato ottenuto da tutta l’interminabile campagna sui cosiddetti impresentabili. Di più, si è solennemente affermato che compito della commissione Antimafia è mettere delle persone alla pubblica gogna sulla base di simili carte, senza dare loro nemmeno la possibilità di difendersi. E quel che è ancora più grave, che tutto questo avrebbe a che fare con la lotta alla mafia. Peggio: che la lotta alla mafia consisterebbe proprio in questo.

Tralasciamo le osservazioni speciose e strumentali che si sono sentite in questi giorni per difendere tale barbarie, come quella riguardante il regolamento della commissione approvato all’unanimità (regolamento che in nessun punto stabilisce che si debba mettere insieme in quel modo una simile lista di proscrizione e tanto meno che in quel modo e con quella tempistica la si debba rendere pubblica). Ci bastano e avanzano le osservazioni di Pio La Torre, ricordate nei giorni scorsi sul Foglio da Emanuele Macaluso (certamente non un simpatizzante di Matteo Renzi e del suo governo). “Siamo contrari all’equivoco che si è ingenerato: che cioè la commissione parlamentare fosse una specie di ‘giustiziere del Re’, una sorta di comitato di salute pubblica destinato a far cadere testa su testa”. Così parlava un martire della lotta alla mafia, convinto che non fosse questo il compito della commissione, bensì quello di “fornire al governo e al Parlamento uno spaccato della situazione, una serie precisa di indicazioni per realizzare le riforme economiche, sociali e politiche in senso non mafioso”.

Il rischio di una deriva giustizialista e di una strumentalizzazione politica dei lavori della commissione Antimafia non è dunque una novità. E come ricorda lo stesso Macaluso, citando anche le memorie di un altro grande comunista che fu presidente dell’Antimafia, Gerardo Chiaromonte, nella sinistra c’è sempre stata una corrente favorevole a una simile interpretazione della lotta alla mafia, che già allora chiese e ottenne la pubblicazione di “schede nominative” che nulla avevano da invidiare alla lista della Bindi. Mai però si era arrivati a una forzatura come quella cui abbiamo assistito in questi giorni, con la decisione di pubblicare l’elenco a poche ore dal silenzio elettorale, quando cioè nessuno, né i singoli candidati etichettati come sospetti mafiosi su tutti i mezzi di comunicazione, né i partiti che li candidavano, potevano più difendersi in alcun modo. Una condanna alla pubblica gogna senza nemmeno un processo, pronunciata in diretta tv, non è degna di un paese civile. Tanto più lascia sconcertati che anche molti esponenti dell’attuale minoranza del Pd da sempre schierati in difesa della Costituzione, della certezza del diritto e della divisione dei poteri, questa volta non abbiano esitato a schierarsi a difesa di Rosy Bindi e del suo operato. E cioè dalla parte opposta.