L’Italia rischia di perdere la sfida del Ttip

Il 10 giugno il Parlamento europeo metterà ai voti una risoluzione d’indirizzo sul Transatlantic trade and investment partnership (meglio conosciuto con il suo acronimo Ttip) che darà indicazioni alla Commissione europea sui limiti e le criticità da considerare durante il negoziato. Da settimane va avanti un’intensa campagna sui social network e su alcuni giornali per spingere i deputati europei a dare un parare contrario alla risoluzione, che secondo i suoi critici porterebbe a un drastico calo della qualità della vita e del processo democratico sia in Europa che negli Stati Uniti. L’obiettivo dichiarato dell’accordo è definire nuovi accessi al comparto di beni e servizi attraverso l’eliminazione o l’armonizzazione di misure cosiddette “non-tariffarie” (come l’etichettatura, le specifiche di prodotto e i requisiti sanitari), il miglioramento della protezione degli investimenti esteri e l’accesso ai mercati dei servizi, degli approvvigionamenti energetici e degli appalti pubblici. Senza dubbio la questione è delicata: il rafforzamento della protezione degli investimenti esteri e le nuove forme di arbitrato potrebbero infatti indebolire il potere degli stati di agire nell’interesse dei loro cittadini. Allo stesso tempo, andrebbe valutata con cautela l’apertura alla presenza estera di alcuni tipi di servizi, in particolare quelli sanitari. La questione ci sembra però ben più complessa e rilevante di quanto non lasciano intendere le campagne di sensibilizzazione anti-Ttip.

Due sono gli aspetti che andrebbero analizzati. Il primo riguarda le motivazioni che stanno spingendo a siglare questo accordo. Il tentativo fatto dai sostenitori del Ttip di rivenderlo come sicuro portatore di un balzo in avanti in termini di tassi di crescita e di occupazione si è scontrato con stime che, in larghissima parte, mostrano prospettive assai modeste. Anche tenendo conto degli scenari più ottimisti e proiettandoli su un intervallo temporale che va dai dieci ai vent’anni, gli effetti del Ttip si tradurrebbero in una crescita annuale del pil che va dallo 0,03% allo 0,13% in più. Più convincente pare invece la lettura geopolitica dell’accordo: il Ttip finirà per creare una rete di servizi talmente integrata fra le due sponde dell’Atlantico da ostacolare la penetrazione e la competizione di paesi emergenti come Brasile, Cina, Russia e India anche in questo settore, dopo quanto già visto nella manifattura. Tale accordo, quindi, lungi dal peggiorare le condizioni di vita dei cittadini europei e americani, sarebbe addirittura una barriera difensiva contro una nuova ondata di dumping sociale in arrivo dai cosiddetti Bric verso settori ancora al riparo dalla concorrenza internazionale.

Il secondo aspetto riguarda invece gli effetti che il Ttip potrà avere sull’economia italiana, soprattutto in relazione agli altri paesi europei. Le stime condotte da vari istituti di ricerca portano quasi tutti a concludere che le esportazioni totali della Ue aumenterebbero a causa del Ttip, a spese dell’interscambio intra-Ue. Ma le stesse stime ci dicono anche che i guadagni complessivi sarebbero settorialmente molto concentrati, perché l’incremento del commercio bilaterale Ue-Usa sarebbe sostanziale soprattutto nel comparto degli autoveicoli e relativi motori, i prodotti in metallo, i prodotti della chimica. Tutti elementi che lasciano intuire soprattutto un possibile rafforzamento della piattaforma produttiva tedesca. A rafforzare questo convincimento c’è il fatto che la mancanza di contiguità geografica fra i contraenti dell’accordo – ovvero Usa e Ue – farà sì che le attività su cui si concentreranno i maggiori benefici saranno quelle diventate nel corso degli anni magari molto commerciabili, ma spesso intangibili.

Andando per esclusione, si tratterà soprattutto delle attività a monte e a valle delle catene del valore come ricerca e sviluppo (e la relativa proprietà intellettuale) o le funzioni e i servizi associati alle fasi finali della catena (dal marketing ai servizi alla clientela, alla logistica, alla distribuzione). Da questo processo virtuoso rischiano di essere tagliate fuori le piccole e medie imprese del Sud Europa, che hanno sempre avuto difficoltà a inserirsi ai due estremi delle catene del valore internazionale e che si sono spesso viste schiacciate nel mezzo, nelle fasi di produzione a più basso valore aggiunto. Infine non bisogna dimenticare che l’abolizione delle barriere non-tariffarie per armonizzare progressivamente gli standard europei e statunitensi andrà a vantaggio soprattutto delle imprese più grandi.

L’accordo Ttip rischia quindi di produrre dei benefici aggregati – sia in Europa che negli Stati Uniti – ma distribuiti in maniera fortemente diseguale, soprattutto all’interno dell’Unione europea. Gli effetti potranno essere molto diversi sui vari sistemi industriali continentali, con vincitori e vinti a seconda delle capacità delle imprese di partecipare e integrarsi lungo le nuove catene del valore e di ridefinire la loro relativa importanza in esse. Viste le condizioni della nostra struttura produttiva, fra i vinti rischia di esserci proprio il nostro paese. Se l’obiettivo più volte ribadito dal governo è quello di rilanciare l’Italia come protagonista dell’economia europea è chiaro che la ricetta non potrà essere il solito mix di deregulation e di sconti fiscali per le imprese. Per entrare a far parte del club dei vincitori ci sarà bisogno di ben altro.