La lezione dei voucher

I voucher sono un capitolo chiuso per la storia del diritto del lavoro italiano, ma non imparare da quello che ci hanno insegnato sarebbe stupido. Chiariamo anzitutto un punto: l’effetto dirompente dei voucher è dipeso dall’introduzione di uno strumento iperflessibile in un mercato del lavoro prevalentemente rigido. Uno strumento che non aveva bisogno di intermediazioni (con il tabaccaio al posto del consulente del lavoro), che creava un’unità di misura oraria, che a fronte dell’usuale burocrazia contrattuale consentiva una regolarità semplice. Troppo semplice: per questo il governo aveva introdotto la loro tracciabilità, per limitarne gli abusi. Non è evidentemente bastato: si è continuato ad utilizzarli come sostitutivi di un lavoro che deve avere maggiori tutele.

Molti ci dicono poi che i voucher non sono serviti a combattere il lavoro nero: anche questa è però una conclusione dovuta a presupposti sbagliati. Uno strumento come i voucher non doveva dominare il mercato dei lavoretti, della gig economy, ma “riempire gli angoli”, laddove un vero contratto non potrà mai arrivare perché non ci sono le condizioni minime. Per questo sarà importante che, modello francese o modello italiano, vengano reintrodotti in qualche forma a uso delle famiglie, per le quali anche l’idea della Cgil di una card magnetica ricaricabile non è da scartare.

Ma per le imprese? Non si tratta di voler trovare un altro strumento iperflessibile che danneggi il lavoro stabile, ma di riempire, anziché gli angoli, quelle sacche di lavoro grigio che non hanno prospettiva né per il datore né per il lavoratore, quel lavoro “di passaggio” per fasi della vita dell’individuo o per sporadici picchi di necessità di forza lavoro nelle aziende, come può accadere nel turismo, nell’organizzazione di eventi, nei pubblici esercizi. Tutti settori per i quali esiste già il contratto a chiamata, del quale si fa un gran parlare in questi giorni. Qualcuno ha proposto di eliminare da quello strumento i limiti d’età (under 25-over 55, a meno che non ci sia una contrattazione collettiva di settore che ne consenta l’utilizzo a tutti). Limiti che ad oggi, insieme alla comunicazione telematica (simile a quella dei defunti voucher) ne costituisce il più grande limite. E per di più, sono vietati alla pubblica amministrazione, quindi anche agli enti locali che utilizzavano i voucher per scopi sociali e solidaristici.

Pensare che sia sufficiente eliminare un vincolo di età o settore sarebbe riduttivo e non accoglierebbe la più grande lezione dei voucher: la differenza nel successo di uno strumento contrattuale la fanno la leggerezza della sua attivazione e la sua capacità di creare uno standard. Con i loro 10 euro lordi e la semplicità di accesso, i voucher agli imprenditori italiani devono essere sembrati un’oasi nel deserto. E non deve essere stato molto diverso per qualche giovane precario abituato a macinare chilometri fra il centro per l’impiego e l’azienda per capire come sarebbe stato pagato o contrattualizzato.

Allora, senza commettere l’errore tipicamente italiano di risolvere tutto scimmiottando altri paesi, in questo caso la Germania e i suoi «mini jobs» (davvero ghettizzanti), per sostituire i buoni lavoro dobbiamo darci degli obiettivi chiari che abbiano alla base principi condivisi. L’obiettivo è ridurre la burocrazia del lavoro senza eliminare le tutele e senza dare copertura al lavoro nero. Il principio è che il lavoro saltuario deve essere semplice (come i voucher), avere un limite massimo in un intervallo di tempo (come il contratto a chiamata) e deve creare misure standard. Dobbiamo immaginare allora che chiunque voglia rendersi disponibile al lavoro saltuario si debba solo registrare, telematicamente, al centro per l’impiego. Il datore di lavoro deve poter dichiarare, semplicemente, che usufruirà delle sue prestazioni, adeguandosi automaticamente a tutta una serie di regole e tutele, indicando l’intervallo di tempo (un mese, tre mesi…), i giorni della settimana e il numero di ore. E per evitare abusi, un limite di giornate annue più stretto delle 400 sul triennio pensate oggi per il lavoro a chiamata. E per dare a questo strumento la potenza standardizzante del voucher c’è un solo strumento: si chiama salario minimo. E anche questo pare non piaccia troppo ai sindacati.

Sembra uno scenario impossibile, senza consulenti nel mezzo, senza scartoffie, senz’altro che dei moduli online? In Italia, per ora, lo è. Se il Pd vuole davvero dare un senso alla decisione di non affrontare il referendum, ha il dovere di renderlo possibile.