Lontano da dove

Cara Left Wing,
ieri è stata una giornata come molte altre per uno che fa il mio lavoro (in sostanza: vendere). Alle 8.30 sono partito da Milano. Alle 9.05 sono entrato in Svizzera. Alle 9.55, dopo aver sperimentato l’inatteso talento dei ticinesi di incasinare i numeri civici in un modo da far invidia ai cinesi, cercando di raggiungere gli uffici direzionali delle poste elvetiche sono finito prima in un solarium gestito da una signora apparentemente slava e poi dentro una chiesa di avventisti orientali (nel bel mezzo della loro funzione, ma questa è un’altra storia). Alle 13.40 ho fatto ingresso a Cinisello Balsamo, che ci tiene a far sapere di essere e considerarsi «città europea». Alle 14.00 mi sono seduto per mangiare una pizza margherita cucinata da un ragazzo turco in un locale adornato da gigantografie della Cappadocia e di Istanbul. Alle 17.30 ero nuovamente a Milano, per un appuntamento con un signore il cui cognome denunciava chiaramente l’origine sarda, stipendiato da una nota casa automobilistica francese.

Business as usual, normale amministrazione. Se non che, mentre stavo rientrando a casa, mi è arrivata la telefonata di un fornitore al quale avevo chiesto un preventivo. Fornitore italiano, che mi chiamava dall’Albania. Albania dove ho passato tre giorni la scorsa settimana, girando per uffici e stabilimenti a Tirana e nella più lontana provincia di Berat e sempre ricavando la sensazione della fame che gli albanesi hanno di entrare davvero in un mondo incasinato e incerto, che a volte li spaventa ma dal quale sono stati tenuti fuori, segregati in casa propria per cinquant’anni. Quando ho chiuso la telefonata mi è tornato in mente il titolo di un vecchio film, forse te lo ricordi. La cosa più bella era probabilmente il titolo, perfetto per questi giorni di ius soli e indipendenze sospese: Lontano da dove. È quello che mi chiedo spesso guardando tutta questa gente che scappa per rinchiudersi in casa propria: dove vuole andare? Via, certo. Lontano. Ma lontano da dove.