Un salario minimo a difesa dei più deboli

In questi anni il Partito democratico ha cercato di contraddistinguere la sua politica di governo per l’occupazione in base a due capisaldi. Primo, creare lavoro, attraverso la semplificazione portata dal Jobs Act, gli investimenti, la creazione di un clima di fiducia nel paese: dopo aver creato quasi un milione di posti di lavoro, possiamo dire di aver centrato l’obiettivo, pur sapendo che c’è ancora molto da fare. Secondo, dare dignità al lavoro, combattendo la precarietà con l’abolizione dei co.co.pro. e delle false partite iva, allargando gli ammortizzatori sociali con la Naspi (indennità di disoccupazione per lavoratori subordinati) e la Dis-coll (indennità di disoccupazione per lavoratori parasubordinati, assegnisti e dottorandi di ricerca), dando vita alle politiche attive. E nel finale di legislatura, introducendo il principio dell’equo compenso nei rapporti fra professionisti e committenti forti, come la pubblica amministrazione. Serviranno decreti attuativi con parametri di riferimento universali, ma la strada è tracciata. Sul versante del lavoro subordinato, invece, il Jobs Act rimane da completare con l’introduzione di un salario minimo legale, che garantisca a tutti coloro che non sono tutelati da un contratto collettivo una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, come prescritto dall’articolo 36 della Costituzione.

In Italia il dibattito su questa soluzione è stato per decenni residuale. I sindacati (sia dei lavoratori che datoriali) lo hanno sempre visto come un’imposizione che avrebbe potuto far tendere al ribasso o al rialzo i salari definiti con la contrattazione. Ma purtroppo oggi sono quasi due milioni i lavoratori italiani che non hanno alcun contratto collettivo di riferimento: sono il 19% dei lavoratori subordinati, con picchi di oltre il 40% in agricoltura, del 30% nelle costruzioni, oltre il 20% nelle attività artistiche, di intrattenimento e nei servizi di hotel e ristorazione. Senza considerare la stima Ocse del 12% di lavoratori che avrebbero un contratto collettivo di riferimento, i cui minimi però non vengono rispettati. La delega prevista dal Jobs Act, non volendosi contrapporre alla contrattazione, escludeva dal salario minimo tutti i settori già protetti in questo modo. In commissione Lavoro alla Camera abbiamo proseguito la discussione, con una risoluzione che ho presentato la scorsa primavera e sulla quale sono stati auditi numerosi esperti, non ultimo il Presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ha sottolineato l’importanza dell’introduzione di questa misura.

Il salario minimo assume forme molto diverse da paese a paese, ma esiste in ben 22 stati sui 28 dell’Unione Europea. Ha una lunga tradizione in Francia, mentre in Germania è stato introdotto solo nel 2014. Nella sua accezione più classica, si tratta di un importo minimo orario, uguale su tutto il territorio nazionale e con poche eccezioni legate ai periodi di formazione. Riempie un vuoto laddove non esiste una contrattazione collettiva generalizzata, mentre interagisce positivamente con la contrattazione in altri casi, come in quello francese. Tutela i più deboli, fissando una cifra alla quale possono appellarsi per veder riconosciuto il valore del loro lavoro, soprattutto quando sono ricattabili e sottopagati. Scegliere il salario minimo non significa quindi voler ridimensionare i sindacati, o voler aumentare il costo del lavoro. Nei settori più sregolati, dare un diritto può significare far emergere una coscienza collettiva. E smettere di scaricare i costi sul lavoro è il primo passo per fermare la deriva dei settori a bassa qualificazione che la quarta rivoluzione industriale sta espandendo nei numeri e comprimendo nei diritti, come la logistica e la manovalanza intellettuale online.

Come Partito democratico siamo contrari a un reddito di cittadinanza che isola gli individui e sminuisce il loro valore. Continuiamo a credere invece nel lavoro di cittadinanza, che restituisce dignità al lavoro e permette a ognuno di ricevere il giusto compenso per garantire a sé stesso e ai propri cari il necessario per vivere in serenità.