Cosa sta succedendo al Corriere della sera

Il Corriere della Sera ha cambiato profondamente identità e funzione nel panorama giornalistico nazionale. Tale mutamento ha a che fare con la crisi dei giornali assai meno di quanto possa apparire. I conti del quotidiano sono stati mantenuti entro una soglia di sicurezza, mentre la crisi ha riguardato la casa editrice di libri e periodici. Cos’è accaduto quindi? Alcuni gravi errori nella gestione dell’azienda, in un quadro di mercato repentinamente mutato, hanno trascinato Rcs in un sostanziale fallimento, da cui si è usciti con la scelta, da parte dei soci, di un editore che predilige, nella sostanza, una linea politico-editoriale del Corriere che scommette sull’elettorato del movimento cinquestelle, o comunque ritiene quel ribellismo e quelle pulsioni propizie alle sorti del giornale.

Ritengo invece non fondata la riflessione di chi pensa al desiderio dell’editore di una scommessa politica in proprio, per rafforzare la quale trova confacente aprire il fuoco del discredito e della delegittimazione. La storia personale di Urbano Cairo, coinvolto in vicende all’epoca della liaison con Berlusconi da cui è uscito (colpevole o innocente che fosse) patteggiando la pena, conducono ad escludere che egli possa davvero ritenere il filone mediatico-giudiziario, che occupa uno spazio di riguardo oramai nei titoli e nelle pagine di cronaca del giornale, la soluzione ai problemi del paese. E tuttavia la mutazione genetica occorsa (che trova origine in alcuni orientamenti antipolitici ben più risalenti rispetto alla recente vicenda societaria) si può ricondurre a due diverse ragioni, che hanno spinto la direzione politica del principale quotidiano italiano verso un simile orientamento.

La prima ha a che vedere con il trasformismo (“sovversivismo”) e l’antipoliticità di una parte della borghesia imprenditrice, che per finalità di opportunistica autoprotezione e anche per convenienza ha ritenuto di salvaguardarsi introiettando, anziché combattendo, il circuito mediatico-giudiziario cui il giornale ha offerto, non da oggi, partitura e fiati (le paginate di intercettazioni, le cronache suggerite). Pensando magari di ricavarne anche nuovi spazi di mercato. Si badi però che il potere economico è nel frattempo passato di mano, sicché le antiche ragioni moderate del capitalismo italiano hanno perduto forza e anche peso morale e politico, lasciando spazio a figure, collocate oggi nei gangli vitali del capitalismo finanziario, più disinvolte e ciniche, come mai era accaduto nel recente passato. Un ambiente che non ha mai reagito agli eccessi del giustizialismo e si è rivelato, in realtà e paradossalmente, il migliore alleato e persino lo strumento del circuito mediatico-giudiziario che imprigiona il nostro dibattito pubblico senza adeguata reazione delle sue classi dirigenti. Tipico peraltro di questa deriva è il ritenere che un’azienda editoriale non sia una impresa culturale, ma un’azienda tout court, che vive solo di logiche di mercato. Un mercato, tuttavia, protetto e sovvenzionato come pochi altri, e a questo punto nemmeno si sa più bene perché.

La seconda ragione attiene invece alla recente stagione politica e di governo a guida renziana. Il moderatismo tanto celebrato del Corriere ha prediletto negli ultimi venticinque anni soluzioni attente a consolidare il bipolarismo governativo e – laddove questo si andava radicalizzando – a predisporsi ad una ragione “terzista”, intesa quale forza aggregatrice di tensioni centrifughe. Tutto ciò si è però infranto sullo spartito renziano del Pd, uno spartito fondamentalmente dirompente (anche nella direzione politica del paese, e con risultati lusinghieri, celebrati da ultimo dal ministro Padoan proprio sul Corriere), e pure un po’ insolente nei confronti di personalità, anche milanesi, che ebbero gran peso nella definizione del ruolo nazionale e locale del quotidiano di via Solferino. Lungi da chi scrive addentrarsi ora in ragioni e torti di questa contrapposizione e sulla possibilità di evitare, con una più accorta regia e diplomazia, una simile resa dei conti.

Colpisce però un dato, cui difficilmente si riesce a dare risposta con gli arnesi del passato: oggi per la prima volta, dopo la fase ultima della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda, con Craxi e Berlusconi protagonisti mai amati ma sempre rispettati, il giornale vira su un radicalismo più ribellista, che soffia su sentimenti talora illiberali. Da un lato, sul versante delle cronache giudiziarie, con uso disinvolto di intercettazioni e titolistica compiacente alle ragioni dell’accusa (con un’intensità che, dai tempi di Mani Pulite, si permetteva solo in casi che interessavano i vecchi proprietari molto da vicino, vedi caso Unipol e scalata Rcs); dall’altro lato, nei confronti della gestione renziana del Pd.

Pur iscrivibile agevolmente al campo politico liberaldemocratico (che dovrebbe piacere alla borghesia imprenditrice di casa al Corriere), il gruppo dirigente renziano è infatti colpevole di avere rovesciato il tavolo del potere nel nostro paese in modo ritenuto rozzo e autarchico (accusa che nemmeno il peso e il rango di Gentiloni e Mattarella riescono a contenere efficacemente, a differenza di quanto accade con Repubblica e Stampa, ad esempio). E quindi, in ultima analisi, rafforzando l’accusa più grave: quella di inaffidabilità. La posizione prevalente sul referendum del 4 dicembre 2016 ne ha dato specifica testimonianza: un giornale che ha sempre spinto per le riforme, questa volta prevalentemente schierato per il no. Sono due tasti oggettivamente consonanti alle posizioni politiche del Movimento 5 Stelle: antipolitica e giustizialismo da un lato; dall’altro l’accusa al Pd di occupazione del potere, unita alla sottovalutazione sistematica dei meriti acquisiti alla prova del governo. E questa sostanziale convergenza si traduce, piaccia o meno, sia voluto o meno, in linea politico-editoriale. Proprio in vista della sfida elettorale del 4 marzo prossimo.