Lo spettro del dispotismo digitale

In un’intervista alla Verità, Davide Casaleggio, fondatore dell’associazione Rousseau e tra i leader di fatto del Movimento 5 Stelle, ha affermato: “Oggi grazie alla Rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile”. E ha aggiunto che “il Parlamento ci sarebbe e ci sarebbe con il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti”, ma “tra qualche lustro è possibile che non sarà più necessario nemmeno in questa forma”. Proviamo a prendere sul serio il ragionamento di Casaleggio analizzandone la sequenza logica: 1) la democrazia diretta è più democratica della democrazia rappresentativa; 2) la Rete e le tecnologie oggi disponibili rendono concretamente praticabile la democrazia diretta; 3) di conseguenza il Parlamento, organo per antonomasia della democrazia rappresentativa, perde la sua ragion d’essere. Le cose stanno veramente così? Affrontiamo separatamente i primi due punti, visto che sono le premesse della conclusione sulla sorte del Parlamento.

Primo punto: il presunto primato della democrazia diretta. Tale primato sarebbe garantito dal coinvolgimento di tutti i cittadini, nessuno escluso, nel governo della cosa pubblica tramite l’espressione continua delle preferenze individuali su temi disparati e senza la mediazione dei partiti o di altri spazi pubblici di confronto. Ma il governo del popolo e per il popolo, a cui fa riferimento il termine democrazia, corrisponde davvero a questa visione? Siamo sicuri che la democrazia diretta sia più democratica di altre forme di democrazia? In realtà, l’aggregazione delle preferenze, a cui si giunge inevitabilmente tramite la democrazia diretta in salsa digitale, equivale alla giustapposizione di interessi privati, privatamente elaborati (e oggi debitamente nascosti dallo schermo di un pc, un tablet o uno smartphone) secondo la logica facebookiana del “mi piace”. Sennonché il popolo, soggetto sovrano nella democrazia, non è riducibile alla maggioranza dei “mi piace”, e quindi degli interessi privati e particolari espressi in forma immediata. Piuttosto il popolo, come concetto democratico, acquista significato soltanto quando si incarna nell’interesse generale. Non a caso l’art. 67 della Costituzione, cuore giuridico della democrazia rappresentativa, sancisce che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione”, e non semplicemente gli elettori che lo hanno votato. Per condurre il popolo al potere occorre che sia rappresentato poiché il popolo non è una realtà empirica che si incontra per strada, ma esiste, come qualcosa di unitario e politicamente efficace, soltanto nella rappresentazione. Per rendere tale rappresentazione adeguata bisogna prevedere che i rappresentanti del popolo siano rappresentanti dell’interesse generale (la Nazione) e non degli interessi di una parte. E l’interesse generale non cade dal cielo, ma è il frutto del confronto pubblico, elettorale, parlamentare, culturale e sociale. Di certo non può scaturire dalla somma delle preferenze private espresse con un click, che potrebbe invece determinare una tirannia della maggioranza digitale.

Secondo punto: la democrazia diretta è possibile grazie alle nuove tecnologie. Anche a voler considerare la democrazia diretta un ideale (ma non lo è), saremmo comunque costretti a smentire l’ottimismo di Casaleggio sulle potenzialità democratiche delle nuove tecnologie. I dati disponibili (segnalo per una preziosa analisi il testo di G. Gometz, Democrazia elettronica. Teorie e tecniche, ETS, Pisa 2017) mostrano che: le molteplici esperienze nell’utilizzo delle nuove tecnologie a fini presuntivamente democratici non sono quasi mai andate oltre il livello locale; non si contano i casi di utilizzo delle stesse tecnologie, da parte di società private, lobby e governi, per interferire indebitamente sulla libera formazione dell’opinione pubblica e sulla libera espressione delle volontà dei cittadini nelle occasioni elettorali; la Rete non sembra aver inciso sul tasso di partecipazione politica dato che la quota di astensionismo è alta in tutti i Paesi occidentali e il valore numerico di quanti hanno partecipato tramite le piattaforme online è risibile. Rispetto alla qualità del processo democratico tramite gli strumenti digitali, i dati sono ancora peggiori. Infatti, l’andamento del dibattito pubblico in rete smentisce sonoramente quanti rappresentavano lo spazio digitale come il luogo del confronto ideale in grado di far emergere l’intelligenza collettiva. Il confronto autentico è infatti raro. Più frequente è invece la contrapposizione dogmatica di verità soggettive che non intendono prestarsi ad alcun vaglio critico.

Alla luce di quanto mostrato, il primato della democrazia diretta e le magnifiche sorti e progressive delle nuove tecnologie sono, quanto meno, discutibili. Se così è, acquista un diverso significato la profezia di Casaleggio sulla fine del Parlamento. Non è tanto la conclusione di un ragionamento, considerando che le premesse non tengono, quanto un’aspirazione ideologica personale e pericolosa. Appare in realtà come il riflesso di un istinto autoritario più volte emerso anche nell’organizzazione del Movimento 5 Stelle che Casaleggio, sulle orme del padre, continua a dirigere e ispirare. Un riflesso che oggi si traduce nell’attività di governo insieme alla Lega: nel rapporto con gli altri organi dello Stato, nell’attacco ai soggetti più deboli come i migranti, nello scontro con gli intellettuali autonomi, come nel caso di Roberto Saviano. Bisognerebbe allora ricordare come, storicamente, la presunta pretesa del popolo di abbattere tutte le mediazioni possibili – dai partiti ai sindacati, fino al Parlamento e alle Corti indipendenti sostituite con i Tribunali del Popolo – si sia sempre incarnata nelle forme della democrazia plebiscitaria, che è l’anticamera dei regimi autoritari. Lo spettro che si aggira nel nostro Paese è, dunque, quello di una democrazia dispotica.