Il gioco di Baricco è un futuro al presente

Non vi sarà sfuggito che qualche giorno fa è uscito il nuovo libro di Alessandro Baricco: che facciate parte del vasto gruppo di eternamente infastiditi dalla sua sola e semplice esistenza in vita o siate perdutamente innamorati della più bella coppia di avambracci della letteratura italiana (per quel che conta: io faccio parte della seconda categoria, arrivando alla perversione di non perdermi nemmeno una delle sue lectures e di apprezzare tutta la sua produzione, in particolare quella saggistica) difficilmente non vi siete imbattuti in una qualche forma di promozione di The Game – un banner, una manchette, un’intervista a Vanity Fair, un passaggio radiofonico da Massimo Giannini. Non che ci sia da stupirsene, Baricco è uno importante: per vendite, ma pure per capacità di elaborare e far circolare idee; poi puoi ritenere quelle sue idee banali e la forma delle sue argomentazioni tronfia o di una levità tale da rasentare l’inconsistenza (ancora: non è il mio caso, lo ripeto nell’eventualità lui passasse da queste parti e si facesse una cattiva ed errata impressione del sottoscritto), ma non è che devi essere tifoso della Juve per farti una ragione della sua capacità di occupare le prime pagine dello sport, oltre alla testa della classifica del campionato.

The Game è un libro sulla rivoluzione digitale o, per meglio dire – usando le parole dello stesso Baricco – sulla insurrezione digitale, quella cosa che «non aveva ideologia, impianto teorico e neppure un’estetica. Poiché era generata per lo più da intelligenze tecnico-scientifiche, era una somma di soluzioni pratiche. Stumenti. Tool. (…) Stewart Brand lo riassunse nel modo migliore: “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano, e cambierai il mondo”». È un libro interessante, sia nelle parti più solide sia in quelle più deboli, che pure non mancano (a partire dall’orrido titolo, che è pure il nome proprio dato da Baricco all’intero Barnum nel quale viviamo, una cosa tipo The Matrix per capirci) e che risultano evidenti con l’inspessirsi della prosa (a volte pare quasi che non sia molto sicuro di sé e allora per darsi coraggio rinunci a una certa forma di leggerezza che gli è congeniale per affidarsi a sequenze di sostantivo-aggettivo così ripetute da diventare dei mantra – fake it till you make it). E insomma, sarà che sono fan, ma mi sento di consigliarvelo, sono cinque o sei ore di lettura ben spese anche quando sentite montarvi il desiderio di roteare le pupille fino a perderle dietro la nuca.

C’è però una cosa curiosa: alla fine resta una sensazione di, come dire, incompiutezza. È un libro al quale manca completamente la dimensione del futuro. Ora, il futuro per uno che fa il mestiere di Baricco è prima di tutto un tempo verbale, un mattoncino fondamentale per mettere e tenere insieme gruppi di parole con i quali esprime idee e, incidentalmente, si guadagna da vivere. Il futuro è un tempo semplice, lo dice anche il suo nome tecnico, ed è un tempo che potremmo definire “naturale” perché per noi comuni mortali il Tempo non è quello che ha provato a spiegarci Einstein, ma è quello di quando guardiamo il display dello smartphone o incontriamo il figlio cresciuto di vecchi amici, è ieri-oggi-domani, passato-presente-futuro (poi la vita è una roba più complicata di così e cerchiamo di sopravvivere aggrappandoci alle incertezze del condizionale, ai soggettivismi del congiuntivo e alle acrobazie del futuro anteriore). Il futuro non è un tempo che si può usare per raccontare, quando si narra una storia si usano il passato e talvolta il presente se si vuol fare o simulare la cronaca: il futuro è riservato alle profezie, con quello ci scrivi l’Apocalisse di San Giovanni annunciando l’ultimo giorno dell’umanità, non le vicende della famiglia Buendía.

Ma se il futuro non è il tempo giusto per raccontare, può esserlo per farci abitare i racconti. Prendi Jules Verne, per dire: una vita passata a raccontare il futuro dando voce a una società che credeva fermamente nel potere taumaturgico della scienza e della tecnica di costruire un mondo migliore; ma pure Isaac Asimov, che nel futuro nel quale ambientava le sue storie infilava la sfiduciata prudenza di gente che aveva visto due guerre mondiali e una bomba atomica ma pure la speranza che in fondo il viaggio, per quanto allucinante, portasse in qualche luogo di pace dove invecchiare serenamente. Curiosamente, un libro che dalla prima all’ultima pagina parla del passaggio dal mondo analogico a quello digitale (un universo a due trazioni sviluppatosi per sfuggire agli orrori del Novecento, questa è la tesi) e dal quale quindi ci si aspetterebbe uno sguardo verso il domani e una qualche previsione, per quanto guardinga e maniavantista, su dove andremo a parare dopodomani, dal futuro si tiene ben lontano. Baricco registra ciò che vediamo tutti i giorni, anche se senza la capacità di metterlo in bella che ha lui: racconta la meraviglia di una specie di umanità aumentata e l’allibita frustrazione che molti di noi provano quando sentono che il futuro (cioè il presente nel quale vivono) si è ridotto ai minimi termini rappresentati dalla possibilità di farsi portare la cena a casa dai ciclisti di Deliveroo e da un ministro che non viene punito fisicamente nella pubblica piazza perché Brennero e Gottardo in fondo sempre montagne sono, e una verità imperfetta e lacunosa ma di velocissima trasmissione di concetto è pur sempre meglio della necessità di studiare per arrivare a una rappresentazione della realtà precisa ma lenta e pesante.

Non dimentica Baricco, in tutto questo, di ricordarci perché la sinistra perde terreno e consensi in tutto il mondo, almeno quello che noi consideriamo tale (l’Occidente ricco e sviluppato, per intenderci): perché – dice – oggi non è questione di valori, buoni o cattivi che siano. Le regole del gioco sono altre: movimento continuo, semplificazione della complessità nell’icona del touch screen che porta il volto del leader del momento e così via. O mangi questa minestra o salti dalla finestra, questo sembra dire The Game, senza spendere una sola parola oggi per il nostro domani: il sol dell’avvenire lo può far sorgere – questo dice la ventiduesima delle venticinque tesi che chiudono il libro – solo una nuova generazione. Perché solo «una generazione di nativi digitali, capaci di incrociare le lezioni del passato con gli strumenti del presente potrà disegnare soluzioni che oggi non ci sono. Inventare modelli, articolare delle prassi, generare una cultura diffusa». Vago, eh? Sì, sembra anche a me. Il Grande Boh. Ma quello, in effetti, l’ha già scritto Jovanotti.