Brasile

Bolsonaro e la teologia della prosperità

Com’è possibile che un estremista di destra fanatico e impresentabile come Jair Bolsonaro sia diventato presidente della repubblica del Brasile? Anzitutto, occorre sfatare un superficiale accostamento di buona parte della stampa, non solo italiana, che l’ha definito il «Trump dei Caraibi». Infatti, rispetto al neo-presidente brasiliano e alle sue intemerate contro le donne, i gay, i neri, gli indios e persino la democrazia, Trump sembra piuttosto un poeta del dolce stilnovo e un equilibrato statista. L’accostamento non funziona nemmeno sotto un altro aspetto: Trump ha conquistato parte dei consensi presso ceti popolari in rivolta contro le cosiddette élite, Bolsonaro invece ha raccolto i voti delle classi dominanti. Se si guarda poi alla distribuzione geografica del voto, Bolsonaro ha stravinto negli Stati del sud (i più sviluppati e a netta maggioranza bianca), mentre il suo avversario Haddad, del Partito dei Lavoratori (Pt, sinistra), si è affermato negli Stati del nord est del paese (i meno sviluppati e a netta maggioranza nera).

Che cosa ha portato alla vittoria di Bolsonaro? Essenzialmente tre fattori: corruzione, criminalità, recessione. Partiamo dall’ultimo fattore: in pochi anni la disoccupazione è triplicata, a causa soprattutto del crollo dei prezzi delle materie prime, di cui il Brasile è ricco. Non trascurabile una prolungata siccità che ha messo in ginocchio la produzione agricola pregiata (e da esportazione) del paese. La recessione è stata addebitata dagli elettori al Pt, che è stato al governo fino al 2016, quando Dilma Rousseff fu estromessa a causa di un procedimento di impeachment alquanto discutibile. Secondo molti osservatori, infatti, si trattò di una sorta di colpo di Stato istituzionale ordito dai partiti di centrodestra (molto forti in parlamento) per riprendere il controllo del paese e mettere fine a una sinistra che governava ininterrottamente dal 2003. Successivamente, però, sono stati proprio esponenti di primo piano di questi partiti a incappare nelle maglie giudiziarie dell’inchiesta Lava Jato, definita la più grande inchiesta anti-corruzione della storia del Brasile. Bolsonaro l’ha cavalcata abilmente e ha così conquistato il consenso delle classi dominanti che avevano storicamente il loro riferimento politico in quei partiti di destra moderata. A ciò ha contribuito anche il suo programma economico ultra-liberista, ispirato da Paulo Guedes, un Chicago boy allievo di Milton Friedman: un programma che prevede molte privatizzazioni e la riduzione al minimo del ruolo dello Stato.

Tuttavia, non si arriva al 55% dei voti con il solo consenso dei ceti dominanti, per quanto influenti possano essere rispetto a classi subalterne che sono tali anche culturalmente. Infatti, è accaduto che Bolsonaro, con le sue promesse di riportare l’ordine, se necessario anche con la forza, abbia fatto breccia sui ceti medio-bassi, esposti a un’ondata di micro e macro-criminalità che negli ultimi anni è aumentata vertiginosamente. Si pensi che nel 2017 in Brasile si sono registrati più di 63.000 omicidi. E sono soprattutto i ceti meno abbienti a essere più esposti alla violenza, avendo meno strumenti per difendersi. Nient’affatto trascurabile è stato il ruolo giocato dalle chiese evangeliche, assai numerose in Brasile, che hanno seguito Bolsonaro nella sua crociata contro i diritti civili. Infatti, lo slogan del neo-presidente era «Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti», un miscuglio di nazionalismo e integralismo religioso che ha dato i suoi frutti. Presso queste chiese, fenomeno tutt’altro che limitato nel Brasile attuale, si fa strada la «teologia della prosperità», in chiara contrapposizione alla «teologia della liberazione». E gli evangelici hanno un largo seguito negli strati poveri del paese.

Infine, ci sono le responsabilità del Pt, e non solo perché non è risultato estraneo alla trama corruttiva venuta alla luce attraverso l’inchiesta Lava Jato, ma perché non ha compiuto nessuna autocritica in merito, anzi si è arroccato sulla difesa di una posizione preminente all’interno della sinistra brasiliana, non facendo fronte comune con l’altro partito di sinistra moderata, il Pdt di Ciro Gomes. Un peso importante ha avuto la vicenda Lula, leader carismatico del Pt e presidente della Repubblica dal 2003 al 2010, fino a pochi mesi fa favorito, secondo i sondaggi, nella corsa presidenziale. Incappato, però, anche lui nell’inchiesta giudiziaria del secolo, è stato condannato (in secondo grado) a dodici anni di carcere per corruzione, e in base a una legge del 2010 chi sia stato condannato (anche se non in via definitiva) non può candidarsi alle elezioni. Ora, senza entrare nel merito della vicenda giudiziaria, per molti versi assai sospetta, resta il dato politico che il Pt ha aspettato l’evolvere della vicenda giudiziaria di Lula senza prepararsi per tempo alla sua successione, come se avesse puntato tutte le proprie carte sul carisma di Lula. Un errore che la sinistra non si può permettere, a nessuna latitudine.