La Repubblica di Chiambretti

A Chiambretti siamo attenti fin da quando, trovandoci gomito a gomito nelle nascente Rai Tre di Angelo Guglielmi, gli vedemmo applicare la chiave surreale al people show. Nulla era più people show di Complimenti per la trasmissione, che allestiva una gara a premi nella casa stessa dei protagonisti, diversi da sera a sera. Il “popolo” stava al gioco, e certo non per il costo irrisorio dei simbolici premi. Allora, e ancora oggi, il gioco a premi era, col varietà musicale, la quintessenza della tv (favole di fiction a parte). Allestirlo in casa, in mezzo a gondole ricordo e servizi di piatti esposti, e dunque sloggiandolo dal tempio (lo studio tv) ne demitizzava la pompa liturgica e ne corrodeva il mito. Ma nel contempo ne manifestava il radicamento popolare perché l’audience estratta dalla poltrona e interprete del gioco non era l’entità statistica un po’ beota immaginata dietro le sterminate cifre dell’auditel.

Con la Repubblica delle Donne Chiambretti e soci fanno qualcosa di simile, anche se con materiali molto diversi. I supposti beoti che si disvelano umani non sono la famigliola tipica del 1988, ma le Queen, più o meno Drag, dei talk show Mediaset. La funzione degli autori consiste nel mettere le cose in modo che il trash non sfugga di mano. E qui le risorse sono, per quanto ci sembra di aver capito, due. La prima è la struttura stessa del programma, che a uno sguardo impaziente potrebbe sembrare una discarica di trash autocontemplativo, mentre: a) la scaletta si articola in passaggi ferrei, il cui sopravvenire spiazza e stronca le eruzioni di manierismo da talk; b) la scenografia, curiosamente, nasconde al pubblico gli eroi del trash mettendoli di spalle nella inquadratura strategica, quella del totale e, di conseguenza, riserva alla regia, astutamente avara, di valorizzarne le smorfie quanto basta.

La seconda risorsa è Chiambretti stesso, che utilizza la tipica velocità di battuta per “migliorare” l’ospite, soccorrendolo – senza parere – quando sembra perdersi nei tran tran e allo stesso tempo spremendolo per fargli manifestare pieghe non del tutto scontate. Se non abbiamo cambiato canale, e sarebbe stato duro il prevederlo, davanti al succedersi di Zanicchi, Mussolini, Signorini, la ragione, a ben pensarci, è tutta qui (mentre era scontato che Amanda Lear l’avremmo seguita comunque, Chiambretti o non Chiambretti). Resta che la broadcasting tv, più di Netflix, YouTube e soci, si conferma un laboratorio a cielo aperto, perché le è preclusa la scorciatoia del fare contenti separatamente gli appassionati di questo o di quello: a te un film, a quell’altro uno spezzone di satira su misura e via servendo i gruppi di simili. Il broadcaster invece deve tenere insieme tutti quei mondi che gli altri coltivano separatamente. Compito complesso, tanto più quando si mira a uscire dai solchi risalenti a Emilio Fede (che peraltro in quella Repubblica delle Donne ci sarebbe stato d’incanto, non fosse per l’impaccio di denominarsi maschio). A proposito: la sentenza dell’auditel è stata 5%. Non male per il Propaganda Live di Mediaset.