Il suicidio assistito dell’economia italiana

Partiti politici, studiosi e commentatori si sono spesso divisi in fautori di una politica per la crescita, anche a costo di una maggiore disuguaglianza, da un lato, e fautori di una politica per l’uguaglianza, anche a costo di una minore crescita, dall’altro. Entrambi i fronti hanno giurato e spergiurato che grazie alla propria ricetta, per quanto dichiaratamente centrata solo su uno dei due obiettivi, si sarebbe alla lunga ottenuto anche l’altro: i sostenitori della trickle-down economics affermando che della maggiore crescita alla fine avrebbero beneficiato tutti, e tanto più chi ne aveva maggiore bisogno; i sostenitori di politiche più egualitarie affermando che una riduzione delle diseguaglianze avrebbe assicurato le condizioni migliori anche per la crescita. Nessuno prima d’ora si era invece impegnato con tanta determinazione nel perseguire solo ed esclusivamente i lati negativi di entrambe le ricette: meno sviluppo e maggiore diseguaglianza. Crescita piatta e iniquità himalayana. Ingiustizia e povertà. Da questo punto di vista, si può dire senza tema di smentite che il governo del cambiamento ha raggiunto un obiettivo che nessuno prima aveva mai osato nemmeno immaginare.

Non è un caso, né uno scherzo del destino; tantomeno il frutto casuale di un compromesso tra due opposte visioni della politica economica, come la maggioranza ha tutto l’interesse a far credere, con la complicità di un dibattito pubblico troppo pigro per approfondire (tra le molte minacce alla democrazia che tendiamo a denunciare sin troppo facilmente, la pigrizia è la più ingiustamente trascurata). La scarsa efficacia della politica economica governativa, per usare un eufemismo, non dipende dalla necessità di tenere insieme una visione di “destra”, rappresentata dalla Lega e da proposte come la flat tax, con una visione di “sinistra”, rappresentata dal Movimento 5 Stelle e da proposte come il reddito di cittadinanza. Al contrario, le due misure sono perfettamente coerenti e complementari. L’idea di abbattere la pressione fiscale per tutti – o comunque nel modo più iniquo possibile: dove l’obiettivo finale della flat tax vera e propria, e cioè dell’aliquota unica, può anche attendere, purché nell’attesa il sistema cominci ad avvicinarsi all’obiettivo attraverso un percorso graduale di crescente iniquità – si concilia perfettamente e anzi rende indispensabile una qualche forma di sostegno diretto al reddito, perché l’abbattimento della pressione fiscale, nel medio periodo, non può non comportare tagli allo stato sociale in misura proporzionale. Vale a dire, di fatto, il suo azzeramento. Ma siccome il taglio delle tasse, l’elargizione del reddito o la possibilità di andare in pensione con quota cento arrivano subito, mentre le conseguenze sui conti – e quindi sulla spesa sociale – arrivano dopo, nell’immediato chi governa può sperare di lucrare un vantaggio elettorale, prima che questa gigantesca catena di Sant’Antonio governativa arrivi alla sua inevitabile conclusione. La logica è semplice: prendi i voti e scappa.

Per dirla ancora più semplice: è ovvio che se intendo sottrarre a scuole, ospedali e ogni altra struttura pubblica gran parte delle risorse con cui oggi si finanziano, al solo scopo di fare un bel regalo fiscale a un consistente numero di elettori, dovrò pormi il problema di chi ne usufruisce e non ha i soldi per arrangiarsi altrimenti. Il reddito di cittadinanza è la risposta a questo problema. Discutere di quanto questa fosse sin dall’inizio l’intenzione dei suoi promotori – o perlomeno dal giorno in cui il contratto di governo è stato firmato – e quanto sia semplicemente una conseguenza accettata come inevitabile, alla fin fine, appare piuttosto ozioso. Non c’è bisogno della calcolatrice per capire chi ci guadagna e chi ci perde. Se l’equivoco non è ancora esploso come una bomba atomica nel dibattito pubblico (sebbene abbia già cominciato a ticchettare distintamente nei sondaggi, e anche nelle elezioni amministrative che si sono tenute fin qui) la ragione sta anzitutto nella pigrizia di cui si diceva, che impedisce a tanti osservatori di contestare la più risibile delle giustificazioni addotte dal governo – anche in questi giorni di fronte ai rilievi dell’Ocse – a difesa della sua indifendibile politica economica. E cioè che questa sarebbe motivata da ragioni di «equità sociale».

Chiariamolo una volta per tutte: equità sociale, giustizia distributiva o comunque vogliamo chiamarla, non significa assistenza, non significa “qualunque forma di elargizione di denaro indipendentemente da tutto il resto”. Il punto non è qui se il reddito di cittadinanza sia giusto o sbagliato in sé; il punto è che non ha nulla a che fare con la maggiore o minore equità del sistema. Anzi, nella misura in cui la “rete di protezione” del reddito di cittadinanza servirà di fatto a compensare lo smantellamento dello stato sociale, conseguenza dell’abbattimento della pressione fiscale proprio sulle fasce di reddito più alte, è evidente che il gioco non sarà affatto a somma zero e che il risultato sarà al contrario il massimo dell’iniquità: per coloro che avranno bisogno del reddito di cittadinanza per curarsi o mandare i figli in scuole appena decenti (e sai che pacchia, allora, con 780 euro al mese), ma ancor di più per tutta quella larghissima fascia della popolazione che si troverà a non essere abbastanza povera da richiedere il reddito, ma dovrà tenersi scuole, ospedali e ogni altro servizio pubblico in condizioni da incubo, perché non abbastanza ricca da potersi permettere il privato. E tutto questo a esclusivo beneficio di quella fascia della popolazione che oggi paga con le tasse più di quanto riceve (cioè del segmento più ricco) e domani si vedrà graziosamente restituito il denaro. Per giunta, in nome dell’equità sociale.

Intendiamoci. Alla lunga, una simile ricetta ammazzerebbe anche la più fiorente e competitiva economia del mondo. Ma non è questo, purtroppo, il caso dell’Italia. Applicata a un paese costantemente al limite di una crisi di fiducia sui mercati, con il debito oltre il 130 per cento del pil, questa ricetta è peggio che un suicidio. È un delirio autolesionista, che probabilmente dispiegherà i suoi effetti peggiori – recessione e diseguaglianza – prima ancora di poter mettere in campo gran parte dei suoi strumenti, già solo con la forza della sua “filosofia” (in politica, e in economia, anche i semplici annunci producono degli effetti, purtroppo per noi). E così presto rischiamo di ritrovarci a dover pagare il conto di una festa a cui quasi nessuno avrà avuto il piacere di partecipare. È vero che già ai tempi dei governi Berlusconi ci siamo spesso comportati come chi preferisce bruciare i mobili di casa pur di non pagare il riscaldamento, ma qui siamo ormai decisamente oltre: qui stiamo dando fuoco a noi stessi per scaldare la casa.