Molti di quelli che in queste ore hanno commentato i fatti di Torre Maura lo hanno fatto indulgendo pigramente in chiavi di lettura semplicistiche e inadeguate. E anche il dibattito politico è stato viziato dalle consuete strumentalizzazioni. Io credo servano invece sincerità e onestà intellettuale. Soprattutto per rispetto a quelle periferie e alle moltissime persone che le abitano affrontando ogni giorno enormi difficoltà. La rivolta, le minacce, la violenza che in quelle strade hanno fatto seguito alla decisione di trasferire in un centro alcune famiglie rom, proteste in cui si sono mescolati movimenti di estrema destra pronti a tutto e residenti esasperati da anni di abbandono, non consentono risposte facili.
Certo, l’amministrazione Raggi ha grandi responsabilità. Sia per la scelta dello strumento dei centri di raccolta rom, pensati da Alemanno, che tutto fanno salvo garantire il rispetto dei diritti umani, e di certo non aiutano l’integrazione. Sia per il modo in cui lo si è fatto, senza prima nemmeno tentare di parlarne con i cittadini. Ma in tutto questo, ahimè, non c’è nulla di nuovo. La segregazione di rom, migranti e di ogni tipo di fragilità in campi o centri di accoglienza, senza immaginare un modello alternativo che produca vera integrazione, è una caratteristica che accomuna la politica romana da almeno vent’anni. Lo hanno fatto le giunte di centrosinistra, quelle di centrodestra e lo fa il Movimento 5 Stelle.
Certo, ci sono differenze e non tutti hanno le stesse responsabilità. Ma quell’impostazione ha accomunato tutti. E da questa amara consapevolezza dobbiamo ripartire. Tutti hanno scelto di collocare quei centri in periferia, sempre, il più lontano possibile dal centro. Possibilmente fuori dal raccordo. Per preservare così la Roma dei quartieri centrali, quella che fa opinione e che ha la forza di autorappresentarsi e tutelare i propri interessi. Ma a Roma non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui c’era il coraggio di provare a risolvere i problemi portandoli nel cuore della città, contrapponendo integrazione a segregazione, come ai tempi di Di Liegro. Se ai nostri giorni una vicenda come quella di Torre Maura assume tali proporzioni è perché la frattura tra le due città è divenuta negli anni sempre più profonda. La Roma delle periferie più estreme è una città abbandonata, dove le istituzioni sono assenti. La politica, e anche il Pd, con le luminose eccezioni rappresentate da tanti militanti che provano a combattere il degrado e l’abbandono contro tutto e tutti, c’è spesso solo nella forma degenerata della clientela acchiappa-preferenze, che crea schiere di dannosi micro-notabilati locali.
Il fallimento dello stato lo si percepisce in modo fisico, camminando per quelle strade. Oggi i luoghi del degrado e dell’insicurezza maggiori sono i grandi complessi di case popolari gestiti da Comune e Regione (e anche qui le responsabilità sono trasversalmente distribuite). Luoghi dove persino la manutenzione è una chimera, dove il riscaldamento nei mesi invernali è un optional. Dove la criminalità più o meno organizzata si sostituisce allo stato nella gestione, occupando spazi in modo sempre più aggressivo, fino agli estremi della organizzazione militare delle piazze di spaccio che ormai caratterizza interi quartieri.
Se a un’assoluta inadeguatezza dei servizi essenziali, e a un’evidente disparità di opportunità rispetto alla Roma dei quartieri centrali, si aggiunge che nemmeno dentro una casa che le istituzioni ti hanno assegnato puoi sentirti sicuro, il corto circuito nel rapporto con lo stato diventa inevitabile. Chi conosce quei luoghi e quei volti non fatica a leggere le vecchie e nuove alleanze che si saldano in quelle terre di nessuno. Dove ad esempio microcriminalità locale, organizzazioni mafiose e gruppi neofascisti trovano il loro terreno di contatto, perpetuando un legame ben documentato nelle cronache cittadine.
Spesso quelli che scendono in piazza a soffiare sul fuoco della rabbia non sono altro che i rappresentanti di quel sistema criminale e di quei gruppi estremisti. A Ostia, per fare solo un esempio, il clan Spada e Casapound hanno per anni organizzato eventi e manifestazioni insieme, esplicitamente, senza vergogna. Ma anche qui, se vogliamo essere onesti, non possiamo limitarci a denunciare gli effetti di un abbandono e chi li strumentalizza. Perché quello che è venuto meno è una rete sociale, un tessuto di relazioni che garantisse a quelle periferie capacità di rappresentanza (e quindi potere contrattuale). Non c’è più la civitas, cioè la comunità, e il rischio è che nulla se non la rabbia terrà più insieme le persone. A questa rapida e progressiva dissoluzione del tessuto civico abbiamo dato anche noi un grande contributo, affrontando il problema solo secondo una chiave urbanistica. La città ridotta all’urbs, all’insieme delle sue strade, delle sue piazze, dei suoi palazzi. Cosa si può fare per dare un segnale a uno di quei quartieri? Rifare una piazza e un marciapiede: questa è stata spesso la nostra unica risposta.
Si pensi al peso che oggi hanno acquisito nella nostra narrazione i temi del decoro e della legalità, e a quanto un’agenda declinata in base a queste priorità abbia sviato dalla percezione dei problemi sociali, finendo per alimentare una desertificazione devastante. Per carità, le paline pubblicitarie abusive sono una vergogna, e così i camion bar nel centro della città. Ma davvero oggi (e ieri) il problema principale di Roma è questo? In quelle periferie abbandonate spesso gli unici presidi di comunità nascono proprio dalla violazione delle norme. Sono associazioni che svolgono funzioni preziosissime, supplendo all’assenza dello stato, ma vengono sfrattate perché non riescono a far fronte a un canone eccessivo, che spesso sono proprio le istituzioni a richiedere. O sono luoghi occupati, quindi illegali, che paradossalmente diventano veri e propri presidi di legalità, ma che le istituzioni nella migliore delle ipotesi tollerano a malapena, nella peggiore combattono esplicitamente.
La città è un corpo vivo e lo è anche la sua periferia, che reagisce a decenni di speculazione e segregazione cercando le strade per reagire e per sopravvivere. Accade ogni giorno, sta accadendo anche ora. Ma quella reazione vitale ha trovato quasi sempre la sinistra schierata dalla parte di chi provava a soffocarla. Per questo oggi facciamo una gran fatica a leggere e interpretare quel malessere. Per questo ci votano solo dentro alle Mura aureliane, perché quella è l’unica Roma alla quale abbiamo saputo parlare. Insomma, questa Roma decadente e rabbiosa è anche figlia delle stagioni amministrative del centrosinistra. Per costruire una risposta nuova, la premessa indispensabile è riconoscerlo.