È ora di vedere il bluff populista

Alla fine della grande battaglia che avrebbe dovuto cambiare per sempre i destini dell’Europa, il risultato più clamoroso conseguito dalle armate sovraniste – Italia a parte: ma è da tempo che in Europa siamo un caso a parte – sarebbe rappresentato dal fatto che il partito di Marine Le Pen, primo in Francia con il 23,3 per cento, ha preso lo zero-virgola-nove per cento in più dell’esecrato Emmanuel Macron (non è una novità e non è nemmeno un record: era primo anche alle europee del 2014, e con il 24,8). L’altro grande successo del fronte antieuropeo sarebbe il 31 per cento del Brexit Party. Un successo che tuttavia, se le parole hanno ancora un senso, difficilmente potrà essere di grande utilità per chiunque, all’interno di quelle stesse istituzioni che il partito di Nigel Farage intende abbandonare entro l’autunno, vale a dire prima ancora che la nuova Commissione si insedi. Quanto al 52 per cento ottenuto dal partito di Viktor Orbán, si tratta di un dato che dovrebbe semmai far riflettere sulla preoccupante deriva autoritaria dell’Ungheria. Tanto più che di altri clamorosi successi del populismo antieuropeista non sembra esserci traccia. A parte, come dicevamo, in Italia.

Qui la situazione è piuttosto semplice: un anno fa avevamo al governo un Movimento 5 Stelle al 32 per cento e una Lega al 17; oggi abbiamo al governo una Lega al 34 e un Movimento 5 Stelle al 17. Dunque, non è che le cose siano cambiate poi tanto. Quando la prua si impenna e la nave comincia a colare a picco, è naturale che l’equipaggio si sposti verso la parte del vascello ancora in emersione. Sarà anche un’altezza inebriante, in questo momento Matteo Salvini si sentirà certo il re del mondo e la stessa procedura d’infrazione gli sembrerà solo un po’ di nebbia che annuncia il sole, ma è evidente che la navigazione non andrà avanti tranquillamente ancora per molto.

Il Partito democratico, che dopo il 17 per cento del 2018 molti davano per morto, avrebbe certo potuto sfruttare meglio l’occasione. Se non lo ha fatto, probabilmente è perché non l’ha nemmeno vista arrivare, e questa è ovviamente un’aggravante. Ma si è rimesso in piedi. E così, grazie al tracollo del partito di Di Maio, anche il timido 22 per cento del Pd consente oggi di immaginare uno scenario completamente diverso dal fosco bipolarismo populista che sembrava sancito irrevocabilmente dal voto del 2018, appena un anno fa. Il merito andrebbe dunque equamente ripartito tra Matteo Renzi, che impedì l’assoggettamento del Pd a un Movimento 5 Stelle che allora i democratici non avrebbero avuto la forza (né parlamentare, né politica) di contenere in alcun modo, e Nicola Zingaretti, che ha saputo costruire liste aperte e credibili, e soprattutto frenare la spinta centrifuga all’interno del suo partito e nel campo del centrosinistra nel suo complesso.

Ora che il Pd si è rimesso in piedi, naturalmente, sarebbe anche utile che decidesse dove vuole andare, perché certo non basterà rimanersene immobili in attesa che l’Italia vada in malora per vincere la prossima volta, qualunque cosa si decida di sgranocchiare nell’attesa. La parabola del Labour di Jeremy Corbyn, fino a ieri da tanti indicato a modello, da questo punto di vista dovrebbe insegnare qualcosa. Il punto non è se servissero di più o di meno la svolta a sinistra, il centro o il blairismo, il populismo o le élite, o tutte le questioni politologiche con cui amiamo trastullarci in Italia. Il punto è che nella Gran Bretagna post-referendum la questione Brexit aveva ridefinito integralmente il campo e le regole del gioco, e l’idea che si potesse ignorarla o eluderla, continuando a battere sulle parole d’ordine che avevano funzionato fino a un momento prima, non poteva non significare condannarsi all’irrilevanza. Quando si tratta della stessa tenuta economica di un paese, della sua collocazione internazionale, della sua appartenenza all’Unione europea – in breve: del suo futuro – è evidente che cambia tutto, perché tutto è in gioco. È probabile che molto presto lo capiremo anche in Italia. Auguriamoci che il Partito democratico e tutte le forze progressiste lo capiscano almeno un minuto prima.

Per un anno il governo ha giocato con estrema spregiudicatezza la carta della demagogia, compromettendo gravemente l’economia del nostro paese, le sue finanze, la sua posizione in Europa e sui mercati. Ne ha ricavato, complessivamente, il due per cento di voti in più rispetto al 2018. Raramente, nell’intera storia della demagogia e del clientelismo politico, si è vista un’operazione più antieconomica. Per di più, le cambiali su cui l’intera operazione è stata costruita – una specie di gigantesco schema Ponzi a danno di tutti gli italiani – scadono questo autunno. Quando cioè il governo dovrà trovare decine di miliardi per evitare l’aumento dell’iva, schivare la procedura d’infrazione e sostenere le sue promesse (a cominciare dalla flat tax, che oltre a essere la più folle e la più iniqua dell’intero repertorio è pure la più costosa). E tutto questo al netto della crisi finanziaria che il semplice annuncio delle sue intenzioni minaccia di innescare da un momento all’altro.

I risultati delle elezioni europee hanno già smascherato il bluff della grande avanzata sovranista che avrebbe dovuto sovvertire tutti gli equilibri e cambiare tutte le regole del gioco: la nuova maggioranza sarà probabilmente anche più europeista della precedente, comprendendo una ragionevole combinazione di popolari, socialisti, liberali e magari anche i verdi. Il bluff del Movimento 5 Stelle come nuovo grande partito della sinistra, e di Luigi Di Maio come erede – ricordate? – niente di meno che di Enrico Berlinguer, per fortuna, è durato una sola estate. Al tavolo da poker del populismo italiano, Salvini insiste a rilanciare imperterrito, continuando a invocare la Madonna e a polemizzare col papa. Ma è rimasto solo. E l’unica cosa che ha in mano è un mazzo di cambiali ormai prossime alla scadenza.