Dentro Chernobyl

C’è un istante, brevissimo, nella seconda puntata di Chernobyl, la serie attualmente in onda su Sky, in cui una donna, richiamata dal rumore dei colpi all’ingresso dei soldati che stanno iniziando l’evacuazione forzata di una intera città, va ad aprire la porta dell’appartamento del grande palazzo brutalista di Pryp’jat’ nel quale vive. Io e i miei amici quella porta l’abbiamo vista. Nel senso che siamo entrati in uno di quei palazzi di Budivelnykiv Prospekt, abbiamo guardato le cassette della posta al centro del pianerottolo che divide le due lunghe ali dell’edificio dove la gente si incrociava per prendere l’ascensore, abbiamo salito le scale per sedici piani fino ad arrivare all’ultimo dove ci siamo separati senza averlo concordato. Io sono entrato nell’appartamento numero 60; la porta era aperta, aveva uno spioncino e la parte esterna, quella che dava sul corridoio, era ricoperta da una sorta di imbottitura di un colore che in quella luce incerta sembrava marrone chiaro. E ieri sera quella porta, appunto, l’ho rivista. Identica. Poi la puntata è andata avanti, è finita, e ho passato un’altra ora su YouTube a guardarmi filmati d’epoca, girati con colori incerti e definizioni vaghe.

La Zona di alienazione di Chernobyl è, fra le altre cose, un immenso set fotografico. Ci sono momenti e luoghi e situazioni nelle quali tutto il resto scompare e quello che si ha di fronte è esattamente, al nocciolo, un’inquadratura, di solito perfetta. Non è difficile capire perché: uno dei più grandi disastri dell’umanità, un’intera popolazione spazzata via dalle sue conseguenze, le rovine in lento decadimento, ed è tutto lì a disposizione, a esercitare un effetto che a volte non è definibile se non come ipnotico. A parte casi eccezionali, tra i turisti che visitano la Zona non c’è nessuno che resista al bisogno di fotografare, di prendere immagini. Tutti fotografano tutto, sempre, con i telefoni e con le reflex delle quali hanno fornito gli estremi prenotando il viaggio. Escono dai sentieri, avvicinano muri pericolanti, corrono avanti o si attardano per uno scatto, e poi un altro, e un altro ancora, magari perdendo il contatto con il resto del piccolo gruppo con il quale viaggiano. È capitato anche a me, e quando da un punto imprecisato della foresta che ha preso possesso del centro della città e nella quale mi ero perso proprio per due scatti in più è sbucata la smorfia della nostra guida, che senza dire una parola mi ha fatto cenno di seguirlo, ho obbedito chiedendo scusa e promettendo che non lo avrei fatto mai più, ma sapendo di mentire perché, semplicemente, era esattamente quello che volevo: in fondo io e tutti gli altri eravamo arrivati lì per vedere e volevamo tornare a casa per far vedere ad altri.

La domanda allora è cosa volevamo far vedere, cosa vogliono far vedere tutti coloro che vanno a Chernobyl o che usano le immagini per raccontarla ad altri. La Zona è un set per così dire naturale: non ha bisogno di aggiunte, cambiamenti, ritocchi, standoci dentro l’unico sforzo sensato sembra essere quello di riprendere e restituire nel modo più fedele possibile ciò che sta davanti agli occhi. È per questo che mentre stavo lì non riuscivo a non rimanere basito di fronte ai segni del passaggio e dell’intervento di gente che aveva voluto cambiare la scena trattando quei luoghi come un palco teatrale: un paio di scarpe messe in equilibrio tra i vetri rotti di una finestra a Zalissya, una bambola senza vestiti sul terreno all’ingresso dell’asilo di Kopachi, una mezza dozzina di maschere antigas appoggiate ad arte fra Pryp’jat’ e Duga 3, un paio di bottiglie di vodka su altrettanti tavoli, troppo pulite per essere originali, per essere vere. Abbiamo chiesto a Igor, la nostra guida, indicando una specie di cantina con il mobilio spolverato e disposto strategicamente: is this staged, questa roba è messa qui apposta? E lui ci ha confermato che sì, che ci sarebbe capitato più volte di vedere non ciò che era stato ma ciò che qualcuno aveva voluto che fosse. Siamo gente di mondo, non ci sfugge la logica, siamo abituati a vedere qualsiasi simbolo – nostro o altrui – usato per una quantità di scopi che vanno dalla pubblicità alla politica al puro nonsense, non ci turba vedere due croissant al posto delle vele dell’Opera di Sidney o passare serate in piazza a Milano guardando proiezioni sponsorizzate sulle facciate di cattedrali e musei, abbiamo perso il conto di quanti photoshop hanno subito la Tour Eiffel e Mount Rushmore e le Piramidi; abbiamo dentro tutto questo e molto altro anche a livelli di consapevolezza decisamente bassi eppure ricordo con precisione che restare a fissare i resti di interventi umani molto simili a quelli come logica e risultato mi metteva – e so che non ero l’unico a provarla – una strana sensazione addosso, come di violazione di un sacrario e di mancanza di rispetto e persino di truffa: non ai danni di chi ha visto e magari si è commosso guardando una di quelle foto sulle pagine di una rivista, ma miei.

Io che non ero andato a Chernobyl né su incarico né con l’idea di vendere un servizio al mio ritorno volevo la verità, il che a ben vedere era un desiderio insensato, sia per la sua vaghezza sia per il suo essere legato a luoghi dove lo sforzo degli uomini, a partire dai capi di uno dei governi più potenti della terra, per nascondere, deviare, occultare, alleggerire, abbellire la verità raggiunse vertici di virtuosismo quasi artistico. E però, nonostante tutto questo mi fosse ben chiaro, pretendevo, pur senza dirlo a voce alta, che tutto quanto vedevo e toccavo e attraversavo fosse vero e intatto: ragazzi, abbiamo fatto un patto, no? I miei soldi e la mia fiducia e la mia emozione in cambio del vero, e poi mi fate trovare a due passi dagli scalini che portano nell’asilo un cicciobello comprato per quattro soldi a Kiev – o, mutatis mutandis, un pompiere ricoverato nell’Ospedale 6 di Mosca e trasformato dai truccatori in uno zombie di Romero? Una vocina fastidiosa mi diceva che forse quella bambola era capace di raccontare qualcosa in più, la stessa vocina fastidiosa ieri sera mi suggeriva che l’elicottero che precipita sopra la centrale grippato dalla radiazioni e la mano ridotta a un grumo di carne sanguinolenta dopo aver impugnato un pezzo di grafite riescono ad aggiungere o evidenziare qualcosa che non so definire e nemmeno immaginare: è una possibilità, certo, legata alla bravura del fotografo, dello scenografo, del regista, alla sensibilità di chi guarderà la foto e di chi passerà cinque ore della sua vita sul divano a guardare Jared Harris e Emily Watson (e io fra questi, a scanso di equivoci), al contesto nel quale questi si troveranno; e però ieri sera, dopo aver riguardato documentari e pezzi di telegiornale, sono tornato indietro all’agosto di due anni fa, ai momenti in cui guardavo quei set dentro il set e ciò che volevo dire – senza avere il coraggio di farlo – era semplicemente: «Volevate fare un film dell’orrore, va bene: ma non bastava tutto questo, ce n’era davvero bisogno?».

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Sergio Pilu è autore di Zona di alienazione: Chernobyl, una mattina d’estate