Coronavirus a Milano

Il virus e la crisi del modello Milano

La Milano ansiosa, quella che guarda ossessivamente i numeri sanitari ed economici, è in allarme anche per le prime crepe nell’autoritratto che si era concessa, per scricchiolii sociali che potrebbero annunciare il crollo dell’immagine di città della modernità e dell’innovazione. La Milano della Digital Week si accorge solo dopo molte settimane che per troppi bambini è impossibile accedere alla didattica digitale. Il lockdown delle scuole ha fatto emergere disuguaglianze digitali tra cittadini, coerenti con le disuguaglianze sociali, il divario culturale nell’uso delle risorse e nell’accesso agli strumenti.

È soprattutto nelle famiglie con figli nelle classi elementari e medie che questa diversità è evidente: necessaria la presenza di un genitore informatizzato che aiuti i bambini nell’uso delle piattaforme; necessario che in una famiglia con due o tre figli ognuno di essi possieda un device con il quale seguire la propria lezione online; necessario che in ogni casa vi sia una stampante per testi e schede dei compiti. Il risultato è fatto di famiglie di serie A di serie B, di bambini di serie A e di serie B, con classi che proseguono nella propria didattica anche con pochi alunni A connessi.

La città che fino al mese scorso era la locomotiva d’Italia, «capace di risollevare il Paese dallo sprofondo», ora finalmente avvia un servizio di fornitura di computer per le famiglie in difficoltà. Sono queste azioni minute e concrete, sensibili al disagio sociale e alla redistribuzione delle opportunità che in questa crisi possono essere esempio di innovazione per il Paese. È necessario però abbandonare la nostalgia per quella narrazione esaltata ed egocentrica del modello Milano, è necessario che la città si veda per ciò che è realmente, nel bene e nel male. Città ricca e fortunata, con lavoro e università di eccellenza, che attrae giovani da ogni regione del Paese, ma al contempo con ancora tanto divario sociale al suo interno, fatto anche di quell’analfabetismo digitale che genera esclusione. Una Milano reale, con periferie vere, e non dipinte di verde su render smart fatti di passerelle green e di piste ciclabili. Una Milano più umile, capace di rialzarsi non perché sempre vincente, ma semplicemente perché lo spirito solidaristico in città è immenso, in una regione che conta 53mila associazioni di volontari.

Se il decantato modello Milano si rifacesse alla pratica e alla tradizione del solidarismo cattolico e socialista, la narrazione di questi giorni direbbe al mondo che la mensa dell’Opera San Francesco, che da sessant’anni sostiene i più poveri in città, non ha smesso di servire un solo pasto, lo ha semplicemente chiuso in un sacchetto di plastica erogandolo senza far sostare la gente nel refettorio. Non ha chiuso il servizio docce, attivo sia di giorno sia di sera e che permette a 800-1000 persone ad ogni turno di lavarsi e cambiarsi gli indumenti intimi, non si è fermato il servizio di prima accoglienza, e neanche l’orientamento al lavoro. Perché, dice Fra Marcello, Presidente dell’Opera, «i bisogni non si fermano, tantomeno nei momenti di crisi». Frati che hanno visto i flussi dalle guerre dei Balcani, le immigrazioni di massa, e che non hanno mai indugiato. Come non possono farlo le tante comunità di accoglienza per minori che, con i bambini senza scuola, devono raddoppiare turni e fatiche di educatori e volontari.

La città racconterebbe al Paese che il Comune mette a disposizione case popolari per senzatetto e per personale sanitario non residente. Racconterebbe che Milano Ristorazione, che normalmente prepara i pasti per le scuole, lavora per offrire ai senza fissa dimora pranzi e cene. E non solo la Milano del welfare fa salti mortali. Quasi tutte le Università hanno offerto per prime lezioni in streaming, colloqui con i docenti via Skype, perfino lauree discusse da casa per evitare la paralisi. Alla Pinacoteca di Brera i dipendenti organizzano visite virtuali e brevi video per i social. In Triennale si raccontano in streaming artisti, musicisti, scrittori. Piccole rivoluzioni, che piccole non resteranno e che probabilmente cambieranno abitudini lavorative e strutture organizzative future di tanti settori.

Questa è la narrazione che Milano deve trasmettere al mondo per essere modello, esempio, perché quella che recita «abbiamo ritmi impensabili ogni giorno», piaccia o meno, è stata spazzata via da un virus e non tornerà. Come non tornerà il lombardo borioso che sfotteva la monnezza della Raggi, perché già due settimane fa quel cittadino veniva rimbalzato dal Meridione vendicativo, dalle sprezzanti capitali europee, finanche dalle sperdute isole resort che tanto hanno fatto per sceneggiare il milanese imbruttito.