Quando copiare il privato è un’idea sbagliata

In un articolo su Il Riformista, Mauro Felicori, già direttore della Reggia di Caserta e attualmente assessore alla cultura della regione Emilia-Romagna, fa una serie di considerazioni sulle giornate di gratuità dei musei, ragionevoli e condivisibili soprattutto dal punto di vista di chi i musei li dirige e li gestisce. L’assessore propone, tra l’altro, uno sconto a chi entra nei musei nella prima mezz’ora di apertura per allentare la pressione nelle ore centrali della giornata. Fermo restando che, almeno a Roma, se si esce dal cerchio magico dei musei più carismatici, la stessa iniziativa si potrebbe applicare anche agli ingressi pomeridiani, c’è un passaggio nell’articolo di Felicori che mi ha fatto riflettere.

L’autore si chiede per quale ragione non si attuino nei musei politiche di prezzi differenziati a seconda degli orari e delle stagioni, e si risponde che ciò avviene «perché non siamo abituati a concepire i musei come aziende», vale a dire, aggiungo io rifacendomi all’art. 2555 del codice civile, come «organizzazioni di persone e beni economici, organizzati dagli imprenditori per l’esercizio dell’attività d’impresa».

Ecco, va tutto bene: il marketing, l’efficacia e l’efficienza, e anche le tecnicalità gestionali. Quello che mi lascia perplessa è l’invito a concepire i musei (pubblici) come aziende, cosa che, invece, non sono per loro natura, per definizione dell’Icom, per finalità costituzionale e anche per ragioni meramente burocratico-amministrative. Perché i beni conservati nei musei non sono – almeno secondo la definizione legislativa e il sentimento diffuso – beni economici classici (ammesso che lo siano in senso stretto) ma beni meritori, ossia beni meritevoli di tutela pubblica indipendentemente dalla richiesta che ne fanno i potenziali utenti. Sono beni che per la loro peculiarità vengono sempre definiti dall’attributo di culturalità.

Ma anche al di là della complessità definitoria, esiste una questione anche più essenziale. Perché i beni culturali conservati nei musei pubblici sono, appunto, pubblici. E di proprietà pubblica sono anche gli edifici che li accolgono. E sono di proprietà pubblica anche i monumenti accanto ai quali passiamo ogni giorno: le mura antiche, gli acquedotti, molte chiese monumentali e le opere che contengono. E sono pubblici gli stipendi pagati ai dipendenti del MIC o degli enti territoriali necessari a far funzionare l’intero sistema – che siano storici dell’arte o archivisti, o amministrativi o custodi.

Ciò che altresì si dimentica è che il denaro necessario a tutelare, restaurare e rendere disponibili i beni culturali pubblici arriva per più del 90 per cento dalla fiscalità generale, vale a dire dalle imposte che pagano i cittadini. Gli introiti da bigliettazione – il libero “mercato” insomma – rappresentano oggi meno del 10 per cento delle entrate nel bilancio dei musei statali. E poi c’è la questione, che vale la pena di ribadire, di cosa sia un museo per l’Icom (limitandoci alla prima parte della definizione): «un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale». Date queste premesse i musei, e il settore culturale pubblico in generale, meriterebbero sistemi di gestione e di offerta di servizi capaci di emanciparsi da parallelismi impropri con le attività aziendali e di impresa.

In effetti, pensateci, è bizzarro che a fronte delle spacconerie sulla consistenza percentuale e del patrimonio culturale italiano, e sull’invidia che suscita in tutte le nazioni estere, si sia preferito costringere e vincolare l’intero settore museale pubblico dentro un modello aziendale e di impresa pensato per tutt’altre attività e servizi e con finalità prettamente economiche invece che di crescita immateriale dei cittadini. Questo invece che elaborare, casomai anche sperimentalmente, prassi e progetti di gestione specifici per un settore evidentemente irriducibile alle tipologie tradizionali di beni e servizi.

In questo senso non posso che essere d’accordo con l’assessore Felicori: il settore culturale è una macchina conservatrice, quando non reazionaria. E aggiungerei che chi gestisce quella macchina ha voluto comprimere – per pigrizia, mancanza di fantasia o per altri interessi –, il settore culturale in scomodi e scadenti vestiti preconfezionati invece di creare l’abito sartoriale che rendesse le politiche pubbliche per la cultura efficienti dal punto di vista culturale oltre che economico, e le istituzioni culturali capaci di accogliere, e casomai anche di appassionare, tutti quei cittadini che, pur contribuendo attraverso la fiscalità alla loro esistenza, si sentono respinti da esse.