«Chi siete? Cosa fate? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!».

A chi, alla notizia dell’iniziativa del Comune di Venezia di far pagare un biglietto di accesso al centro storico non è venuta in mente l’iconica battuta di Non ci resta che piangere? Il sindaco di Venezia Brugnaro ha affermato che il ticket di 5 euro di accesso alla città è finalizzato a «dare un segnale culturale alle persone che vengono a Venezia, l’idea di difendere la città» e aggiunge che «Avremo un turismo più bello, perché vivrà la città in maniera serena» (sic!).

Da almeno trent’anni la discussione sulle città d’arte si articola su due fronti: da un lato quello dello sviluppo del turismo fondato sull’incremento costante delle presenze e delle permanenze turistiche; dall’altro quello legato ai timori per l’impatto di questi stessi flussi sulle fragili strutture, materiali e immateriali, di borghi e centri storici. Fino ad ora non è stato ancora trovato, e forse neanche cercato, un punto di equilibrio tra le due posizioni.

La semplice soluzione di compromesso pensata dall’amministrazione comunale di Venezia per risolvere un problema estremamente complesso è quella appunto del ticket di ingresso per coloro che visitano giornalmente il centro storico cittadino provenendo da fuori regione. Una soluzione che, però, più che gestire e regolare l’impatto dei flussi, produce l’effetto di selezionare le presenze arbitrariamente. Se, infatti, l’obbligo di pagare per entrare in città potrebbe disincentivare la visita occasionale – e questo è tutto da dimostrare – pensare che ciò possa produrre meccanicamente un effetto educativo e culturale, pare una pia illusione.

Il governo dei flussi turistici comporta necessariamente la progettazione e la realizzazione di politiche integrate che concilino, ad esempio, la necessità di fermare la desertificazione dei centri storici, di impedire la chiusura dei negozi di vicinato e delle attività artigianali e quindi di frenare la progressiva trasformazione di quei centri da luoghi di vita, di lavoro e di comunità, in monoculture turistiche, in luoghi cristallizzati e orientati esclusivamente alle aspettative e alle esigenze dei visitatori.

Perciò, se per entrare nel centro di una città si chiede di pagare un biglietto di ingresso come succede a Disneyland, si eviti poi, almeno, di lamentare la trasformazione di quelle stesse città in parchi di divertimento. Recintare le città come fossero un qualunque luna park, avrà l’effetto di renderle sempre più luoghi in cui il turista meno educato si riterrà, proprio perché ha pagato un biglietto, un cliente che ha sempre ragione più che un ospite riguardoso, e pretenderà che la città si adatti alle sue esigenze di consumo piuttosto che il contrario: le città sono costrette, invece, a “mettersi in posa” a favore del selfie di turisti frettolosi.

Se quindi si vogliono imporre biglietti di ingresso a chi entra nei nostri centri storici, lo si faccia pure, ma avendo l’onestà intellettuale di dire che quelle gabelle nulla hanno a che fare con il governo dei flussi turistici e con la crescita culturale dei visitatori. Scrisse anche Karl Marx che l’aria delle città rende liberi. Ora ad essere liberate devono essere le nostre città.