Che pazzia!

Nell’epoca del digitale e dell’informazione in tempo reale, trasformare un sito internet in un bimestrale cartaceo potrebbe suscitare qualche legittima perplessità. Non meno legittimamente, la scelta di esordire con un numero monografico dal titolo “Fabbrica”, nell’Italia del 2013, potrebbe essere giudicata pura follia.

Anche il nostro critico più severo non potrà però non riconoscere una certa coerenza tra mezzi e fini. Tornare alla carta per parlare di fabbriche, evidentemente, significa indicare una direzione precisa rispetto al dibattito interno alla sinistra italiana degli ultimi venti anni. La direzione opposta, per essere precisi.

La nostra convinzione è infatti che in questo interminabile ventennio berlusconiano, a sinistra, abbiamo fatto quasi sempre il contrario del necessario. Naturalmente, non è stata solo colpa nostra. Per dirne una, il campo da gioco ci è cambiato sotto i piedi: alla privatizzazione della politica e dei partiti è seguita la sua finanziarizzazione, con le società di sondaggi al posto delle agenzie di rating. E così abbiamo discusso sempre meno di condizioni materiali e sempre più di problemi virtuali, sempre meno di luoghi di lavoro e sempre più di luoghi comuni. Una spirale micidiale, una chiusura autoreferenziale senza via d’uscita, che è andata di pari passo con il restringersi degli stessi luoghi di discussione. Al vertice, leader televisivi sempre più omologati e intercambiabili che vanno in tv per accusarsi reciprocamente di non essere abbastanza bravi in tv; alla base, militanti che ormai discutono quasi esclusivamente di problemi di comunicazione e che a questo scopo vengono invitati nelle trasmissioni televisive, dando così un nuovo giro alla giostra. Non per caso, sempre più spesso queste discussioni restano confinate nel circuito chiuso dei nostri amici di Facebook e dei nostri seguaci di Twitter. Dibattiti virtuali per piattaforme virtuali.

A dieci anni dalla nascita della nostra piccola rivista online, abbiamo deciso di uscire — noi per primi — da questa trappola. Anche se può sembrare una pazzia.

Non si tratta di fare gli anticonformisti, tanto più che in Italia l’anticonformismo è strutturalmente impossibile, essendo questa la posa del cento per cento degli intellettuali, dei giornalisti, dei comici e di tutti coloro che per qualche motivo hanno voce nel dibattito pubblico. Anche per andare controcorrente, infatti, occorre che vi sia una corrente. E noi siamo nati in uno stagno, nel bel mezzo del ventennio che va dalla tragica fine della Prima Repubblica alla farsesca agonia della Seconda.

Non serve farla lunga. Proprio la sovrabbondanza di piattaforme da cui prendere istantaneamente posizione su qualsiasi evento interessi il pianeta, e in particolare la sinistra italiana, ci porta a credere che oggi più che mai ci sia bisogno anche di qualcos’altro. Qualcosa che resti fermo lì dove è stato scritto almeno il tempo necessario a discuterne, perché è per questo che lo facciamo: per provocare una discussione.

Non ci interessa dare alle stampe dotte dissertazioni su come vorremmo che fosse l’Italia e invece non è, su quello che dovrebbe fare la sinistra e invece non fa. Ci interessa ricostruire luoghi e occasioni di discussione in cui chiamare a raccolta un popolo forse disperso e trascurato, ma crediamo non ancora rassegnato al silenzio. Tanto meno oggi.

Se lo credete anche voi, restate in contatto e continuate a seguirci.

Anche su internet, naturalmente.


(12/06/2013)