cosa dicevamo

Buttare a mare il Pd?

La crisi del Pd è ormai un gioco di società, che presto o tardi qualcuno penserà a commercializzare: hai vinto le primarie con milioni di voti, esci dal congresso e vai alla casella della campagna elettorale. Imprevisto: il direttore di Repubblica scrive che al Pd serve un Papa straniero, stai fermo un giro. Imprevisto: il sindaco di Firenze dice che vai rottamato, pesca un’altra carta. Imprevisto: l’ex segretario del Pd dichiara che hai perso la bussola e fonda un nuovo movimento, torna alla casella di partenza. C’è poco da fare: alla lunga, bisogna avere proprio un cuore di pietra per non sentire almeno un briciolo di solidarietà per Pier Luigi Bersani e per tutti quei dirigenti che ancora si sforzano di tenere insieme anche solo l’idea di un partito. Uno sforzo che suscita però crescenti perplessità, e tre interrogativi in particolare. Primo: ne vale la pena? Secondo: gli sforzi dell’attuale gruppo dirigente vanno nella giusta direzione o sono essi stessi un fattore di crisi? Terzo: hanno gli sforzi suddetti la benché minima speranza di riuscita o sono comunque destinati a fallire? Tre interrogativi che si possono anche riassumere, pragmaticamente, in uno solo: è venuto forse il momento di buttare a mare il Pd? Questa è la domanda, e tanto per essere chiari sin dall’inizio, diciamo subito che una risposta a questa domanda, così su due piedi, non ce l’abbiamo.
Abbiamo, in compenso, altre domande. La prima delle quali è la seguente: qual è l’alternativa? Dove si va, insomma, una volta chiuso il Pd? Nessuno sembra avere le idee molto chiare in proposito. Di sicuro, almeno sin qui, chi se n‘è andato non si può dire che abbia fatto molta strada. E poi, assodato che il Pd ha moltissimi problemi, siamo proprio sicuri che il problema sia il Pd? Alziamo lo sguardo verso l’intero campo di centrosinistra, o quel che ne resta. C‘è poco da ridere, anche fuori dal Partito democratico e dai suoi problemi, anche tra quelle forze che da quei problemi dovrebbero trarre facili vantaggi. E il quadro non è certo più roseo se dal sistema politico si passa alla società, alla cultura, all’informazione. La sclerosi dei partiti riflette una condizione generale della sinistra, diffusa in tutto il paese, che non dipende dai partiti e nemmeno dai loro dirigenti. A questa condizione, però, partiti e dirigenti dovrebbero porre rimedio. Anche a questo doveva servire il Partito democratico, o no? Sembra invece che il Pd sia stato risucchiato da quella stessa palude che avrebbe dovuto bonificare.
La nostra impressione è che questa non sia una partita che si possa vincere giocando in difesa, come ha fatto Bersani sin qui. Se non si vuole andare indietro, scivolando ogni giorno di più nelle sabbie mobili, bisogna andare avanti. Anche se questo comporta il rischio di aprire nuove divisioni, nel partito e anche nella maggioranza che ha vinto il congresso. Sin qui Bersani ha scelto la linea diametralmente opposta, pensando ad allargare la sua maggioranza, isolando i veltroniani e i popolari dissidenti raccolti attorno a Beppe Fioroni. In questo modo, secondo una logica antica, ha finito per occupare progressivamente le posizioni dei suoi contestatori. Non tanto per una scelta machiavellica, quanto per inerzia. Allargando la maggioranza a Dario Franceschini e ad Area democratica, ma senza chiedere nulla in cambio, al di fuori di una generica lealtà al segretario, Bersani ha finito così per concedere tutto. Le sue ultime mosse sono in proposito molto eloquenti: dall’improvvisa convergenza sul referendum dipietrista contro il lodo Alfano alla non meno estemporanea richiesta di dimissioni a Mauro Masi, e ora direttamente al governo, sull’onda dell’ennesimo scandalo opaco e scivoloso a base di ragazzine. Una sterzata e un inasprimento della polemica con il centrodestra su giustizia e informazione, ma sempre in chiave di “questione morale”, che si accompagna non per caso al silenzio sceso nel Pd sulla vicenda Fiat, anche dopo le stupefacenti dichiarazioni di Sergio Marchionne a proposito dell’ipotesi di “tagliare l’Italia”. Le mosse di Bersani non si spiegano dunque, semplicemente, con l’avvicinarsi delle elezioni (e quindi delle primarie). Implicano, invece, una scelta di fondo. Viene da chiedersi, insomma, se in realtà non sia Bersani a essere entrato in minoranza. E se non rischi di restarci a lungo, e tutti noi con lui.