Dalla fabbrica alla chiesa

Quando abbiamo pensato per la prima volta all’idea di dedicare il primo numero della nostra rivista alla chiesa, e giusto dopo il numero zero dedicato alla fabbrica, lo confessiamo, sotto sotto, ci muoveva un po’ anche il gusto della provocazione nei confronti del nostro mondo. Ci riferiamo a una sinistra che in questi anni ha finito per perdere molta della sua antica aggressività nei confronti del capitale e della finanza, sfogando in compenso quel poco che restava della sua sete di giustizia e riscatto nell’invettiva contro la chiesa cattolica. Per qualche strana ragione, infatti, generalmente buddisti, musulmani, ebrei e induisti vengono risparmiati da questo genere di polemiche, forse per evitare l’accusa di arretratezza, razzismo, antisemitismo o scarsa conoscenza delle insondabili profondità della cultura orientale, mentre per ridicolizzare la religione cattolica non è richiesta nemmeno una conoscenza superficiale dei suoi testi sacri e della sua storia (il che, obiettivamente, è un bel vantaggio). Tutto questo pensavamo, però, quando a capo della chiesa di Roma era ancora – esclusivamente – Joseph Ratzinger: il papa del discorso di Ratisbona che aveva fatto parlare di un nuovo scontro di civiltà, il capo di una curia romana travolta da scandali di ogni genere, l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (per gli amici: Sant’Uffizio) il cui aspro accento tedesco simboleggiava perfettamente la durezza delle sue posizioni, almeno alle orecchie dell’opinione pubblica progressista.

Ed ecco che d’improvviso, prima ancora di andare in stampa, quella che ci pareva una scelta anticonformista e persino provocatoria, almeno per una parte del nostro pubblico, ci appare una decisione quasi scontata. La prendiamo come una lezione di umiltà che la storia (se non altri, per quelli di noi che ci credono) ha voluto impartirci. Del resto, negli ultimi tempi, non è stata certo l’unica. Ma forse non è inutile provare ugualmente a spiegare che cosa intendevamo dire noi con questa scelta, prima che il panorama venisse sconvolto da papa Francesco, con tutta la carica rivoluzionatrice – diciamo così – delle sue parole e dei suoi gesti, per la chiesa cattolica e per il mondo.

In verità, a parte il gusto per la provocazione, a muoverci era anzitutto l’idea di una solida linea di continuità tra la scelta di esordire con la fabbrica e quella di proseguire con la chiesa. Regalare ai nostri lettori prima una piccola fabbrica ritagliabile e poi una piccola chiesa di cartoncino, da costruire con le loro mani, non solleticava soltanto il nostro incoercibile desiderio di tornare bambini, ma anche quello, crediamo non solo nostro, di diventare adulti, in un’Italia che da tempo alle storie per bambini si è abituata fin troppo, perduta in un mondo immaginario fatto di favole sulla società degli individui, sulla nuova economia dell’information technology, dei servizi, della comunicazione, mentre proprio Telecom – la madre di tutte le privatizzazioni degli anni novanta – passa sotto il controllo spagnolo, mentre la Fiat chiude gli stabilimenti e annuncia un giorno sì e uno no l’intenzione di abbandonare l’Italia, mentre l’Ilva agonizza assieme all’intero mezzogiorno e lungo tutta l’Italia, da nord a sud, le crisi aziendali diventavano crisi sociali. C’era bisogno di ricominciare a parlare di fabbriche e di operai, proprio ora che le fabbriche, troppo a lungo date per scomparse nel nostro dibattito pubblico, cominciavano a scomparire sul serio, e tanti operai si ritrovavano in strada, ma continuavano a vedersi pochissimo sui giornali e in tv.

Sempre più diffusa era divenuta ormai l’idea che lo stato e la politica fossero il problema, invece che la soluzione. L’idea che occorresse lasciar fare al mercato e che il concetto stesso di una politica industriale fosse anacronistico. L’idea che la politica dovesse solo fare largo alla forza irresistibile del mercato. Troppo lunga e troppo fruttuosa, nei quarant’anni precedenti, era stata la semina dei teorici di un mondo immateriale, di un’economia virtuale, di una società spersonalizzata in cui tutto era deciso per il meglio dai singoli, dal cittadino-utenteconsumatore e dalle sue libere scelte.

Nel ripiegamento individualistico di questi anni, nella furia ideologica di un liberismo antipolitico che ha permeato di sé destra e sinistra, la battaglia culturale più difficile è diventata proprio questa: la battaglia per la riaffermazione di un diritto universale, contro tutti gli imbrogli e le seduzioni ideologiche delle parole d’ordine oggi alla moda. Diritti universali che non possono essere appannaggio dei soli meritevoli, comunque selezionati.

Per ricostruire dalle macerie dei decenni dell’egemonia liberista, servirà ancora, come al tempo di un’altra e non meno impegnativa stagione di ricostruzione, la forza disciplinatrice, il radicamento sociale e la capacità di guida anche morale di grandi partiti, grandi sindacati, grandi associazioni e movimenti sociali. E anche della chiesa. Potente antidoto, per la sinistra, contro la tentazione di rinchiudersi in quel radicalismo da salotto che già i padri del modello sociale scandinavo individuavano come la vera minaccia alle basi di consenso del compromesso socialdemocratico con il capitalismo. Baluardo indispensabile al tempo del “capitalismo tecno-nichilista” e della sua libertà immaginaria. Una libertà che assomiglia sempre di più a una solitudine disperata, tanto seducente nella fase espansiva dell’economia globale trainata dal debito, quanto angosciante allo scoppio della bolla, nella fase del brusco ritorno alla realtà.

La ragione per cui abbiamo deciso di fare una rivista, e di farla pure di carta, sta tutta qui: nella convinzione che per costruire una libertà più autentica per tutti, invece di una libertà immaginaria per pochi, ci sia bisogno di rimettersi al lavoro in tanti, ci sia bisogno di ricominciare dalle fondamenta e di tornare ai fondamentali. Ma prima di tutto ci sia bisogno di credere alla possibilità del cambiamento – di un cambiamento per cui valga la pena appassionarsi, discutere e persino studiare – senza rassegnarsi all’idea che la politica sia ormai un sottogenere della sit-com, simile a quelle vecchie serie in cui ciascuno recita sempre la stessa parte, l’intreccio non subisce mai la minima evoluzione e a ogni battuta dei protagonisti segue sempre l’immancabile scroscio di applausi e risate registrate.

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