La comunità umana

Cara Left Wing,
la prima volta che sono andato negli Stati Uniti mi hanno dato una macchina a noleggio e un weekend libero. Così una domenica mattina ho acceso il motore e sono partito. Di quel giorno ricordo praticamente tutto – l’idea di fare Atlanta-Memphis-Atlanta in giornata (chiaro esempio di passopiulungodelgambismo e totale inconsapevolezza dei limiti di velocità autostradali americani), il grande cartello verde che segnava la linea di cambio del fuso orario con la straniante sensazione di vedere il futuro per un gioco dell’orologio, lo sciame di famiglie vestite a festa che usciva da quello che mi spiegarono essere un college frequentato da soli ragazzi neri a Chattanooga.

Fra le molte immagini nitide di quel giorno c’è anche una specie di piccolo paese fatto di case mobili, hai presente quelle roulotte che qui da noi si usano come casa vacanza, credo che fosse ancora nella Georgia settentrionale, e fra tutte quelle abitazioni dalle quali ti aspettavi di vedere uscire da un momento all’altro Tom Joad e il resto della famiglia c’era una roulotte adibita a chiesa, con la sua croce, i suoi cartelli di benvenuto e il suo nome che ora non ricordo. Mi venne in mente il mio quartiere di Milano, nato e costruito in una manciata di anni, ottantamila persone arrivate come uno sciame di api, un posto dove i palazzi da centoventi appartamenti venivano su in pochi mesi che alla fine degli anni Sessanta erano sempre troppi, dove per un sacco di tempo mancò quasi tutto tranne due cose: le scuole elementari e le chiese, e queste erano spesso dei prefabbricati precari e fiduciosi quanto gli immigrati che andavano a popolare quella vecchia area agricola attraversata dall’Olona. Le chiese nel mio quartiere erano come i nuraghe in Sardegna, da una ne vedevi sempre almeno un’altra, una specie di rete di sicurezza in un posto che la sera poteva scomparire nella nebbia, che si svuotava la mattina e si riempiva di nuovo quando faceva buio, e non c’erano uffici pubblici, cinema, centri commerciali, giusto qualche panettiere e un paio di edicole: e là, a poco meno di ottomila chilometri di distanza da casa mia, quella roulotte sembrava quel che era, il centro della vita sociale di quella manciata di persone che, almeno per qualche mese, si era fermata a vivere insieme sul bordo di una strada secondaria.

Anni dopo, durante un altro viaggio di lavoro, finii a Orlando. Volendo, avevo solo l’imbarazzo della scelta: Sea World, Disneyworld, gli Universal Studios, Gatorland. Invece mi venne l’idea di andare a vedere downtown, scesi in reception, domandai a una bella signora di colore di chiamarmi un taxi, lei mi chiese per andare dove, io le risposi, lei sbarrò gli occhi e mi disse che la domenica pomeriggio there’s nothing goin’ on in downtown, Sir. Io insistei, e una mezz’ora dopo venni lasciato all’angolo di due strade con il tassista che con l’indice mi faceva segno quella è downtown.

È passato un bel po’ di tempo da quel pomeriggio di ottobre, e sicuramente alcuni dettagli della storia che ti sto raccontando, cara Left Wing, non sono precisi. Ma ho ben presente l’essermi trovato a percorrere due o tre isolati dove, senza un’anima viva alla quale poter chiedere spiegazione, non vidi altro che chiese (downtown Orlando vive dal lunedì al venerdì, nine till five; poi gli uffici si svuotano e per due giorni e spiccioli è una ghost town; io ebbi la discutibile fortuna di incontrare, in tutto il pomeriggio, gli invitati a una festa di matrimonio e due banchi del servizio reclutamento dei Marines: doveva esserci un segno, immagino, che però non capii). Una chiesa ogni cinquanta o cento metri. Quella cattolica, quella battista, quella presbiteriana, quella episcopale, quella luterana, forse sinagoga e moschea. Era come stare nel Garment District di New York, dove tutti producono e vendono bottoni, e passamaneria e annessi e connessi; o a Lissone, dove la vita consiste del fabbricare mobili e trovare qualcuno che li compri, una infinita teoria di vetrine di salotti e cucine e camere da letto, con i buttadentro che ti si avvicinano quando il semaforo è rosso e ti dicono mi venga dietro, la porto io, vedrà che design. Pensai che era una situazione surreale: potevi farti una passeggiata, entrare in uno dei pochi bar aperti per comprarti una birra, ed entrare nel distretto industriale del paradiso cercando l’offerta migliore. Era la rappresentazione della concorrenza perfetta (e non violenta) della religione: prodotto omogeneo, mercato trasparente grazie alle condizioni di informazione perfetta (la Bibbia è la stessa per tutti), le imprese operanti caratterizzate da una dimensione atomistica, totale libertà di entrata e uscita dal mercato. Le sole differenze visibili erano l’estetica delle chiese e gli orari dei servizi religiosi offerti ai fedeli.

Me ne andai verso il centro di downtown, verso il laghetto solcato dai pedalò a forma di fenicottero, chiedendomi se la domenica mattina quel reticolo di strade fosse percorso da gente paragonabile a quella che viene in quella zona di Milano famosa per la concentrazione di concessionari di auto, gente che ha bisogno di una station wagon a basso consumo, prima i francesi, poi i tedeschi, poi coreani e giapponesi, la sera torna a casa e si mette a confrontare i preventivi, il rapporto prezzo-qualità. Quando mi sono messo a scriverti queste due righe ho fatto qualche ricerca per rinfrescarmi la memoria e mi sono imbattuto in un forum americano, dove una coppia che si spostava dal Tennessee alla Florida centrale chiedeva informazioni su qualche buona chiesa da frequentare a Orlando. Diceva: “Noi siamo battisti anche se in effetti la nostra chiesa attuale è del tipo non-denominational – che, detto tra noi, mi sembra un marchio fantastico, l’equivalente del farmaco generico quando entri in farmacia – ci interessa una chiesa non troppo grande, con prevalenza di coppie giovani, e soprattutto involved in the community”. Sono state quelle ultime parole a farmi chiudere il cerchio, a darmi una risposta alla domanda che mi feci mentre mi dirigevo verso il Marine Corps Recruitment Service Desk, a ricollegare quel che ricordavo con le storie di quartiere raccontatemi da mio padre e dagli anziani della zona come lui. Involved in the community, essere utili agli altri, la rete di sicurezza fatta di un’operosità paradossalmente spesso del tutto aconfessionale (non ci credi? Fai un salto a guardare gli oratori estivi: mia madre, che fa la volontaria in uno di questi, mi raccontava qualche giorno fa di aver cucinato non solo per celiaci, ma anche per dei ragazzini mussulmani seguendo le indicazioni della mamma): se c’è un Dio, allora la concorrenza perfetta è sicuramente frutto della sua infinita sapienza e non certo di quella ben più limitata degli economisti nelle mani dei quali mettiamo i nostri destini da fin troppo tempo; e se c’è un Dio è probabile che le chiese, soprattutto quelle nelle roulotte o negli sgangherati prefabbricati della mia infanzia, siano venute su proprio per quello, per essere “involved in the community”. Se questa sia una buona cosa per noi sostenitori dello stato sociale non saprei dirlo, ma mi piace credere che almeno non sia cattiva.

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