Rifare i partiti per salvare l’Italia

Anticipiamo l’editoriale che aprirà il nuovo numero di Left Wing, dedicato al partito, che sarà in libreria nei prossimi giorni.

Sono passati vent’anni dalla fine della Prima Repubblica. Il crollo del sistema dei partiti avrebbe dovuto lasciare il campo a una stagione di protagonismo della società civile, nella quale cittadini consapevoli e responsabili avrebbero potuto finalmente acquisire il controllo della cosa pubblica e far trionfare l’interesse generale. Le cose non sono andate esattamente così. Tralasciando Roma, dove l’ipoteca della mancata transizione pesa indubbiamente, se guardiamo alle assemblee locali siamo costretti a prendere atto di come il cratere lasciato dalle ormai inutilizzabili strutture di partito è stato riempito da consorterie, corporazioni, nella migliore delle ipotesi da localismi. La stabilità, indubbiamente conseguita con l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Regione, non ha affatto risolto il tema della crisi democratica. Anzi, lo spappolamento delle forze politiche locali ha generato fenomeni di trasformismo e una conflittualità crescente che si è ripercossa sull’andamento istituzionale.

Se partiamo dal basso della piramide è perché riteniamo che proprio la constatazione empirica di ciò che è avvenuto a livello locale, cioè laddove la metamorfosi istituzionale si è compiuta, può far emergere la sottovalutazione che caratterizza il dibattito corrente sul tema dei cosiddetti corpi intermedi.

Pensare di superare il bicameralismo (cosa peraltro da fare assolutamente), darsi una nuova legge elettorale e modificare la forma di stato senza risolvere il tema dei luoghi e dei processi con i quali si forma la rappresentanza, è come rivedere le regole del campionato di calcio disciplinando le dimensioni del campo e le regole del punteggio, ma tralasciando di stabilire quanti giocatori scendono in campo e quali sono i requisiti per la loro individuazione.

Dell’articolo 49 della Costituzione si è parlato in occasione dell’abolizione del finanziamento pubblico, per poi riporre l’argomento in un cassetto. La furia iconoclasta prodotta dalla cultura liberale nelle sue diverse articolazioni e che si è abbattuta sulla decotta repubblica dei partiti non ha prodotto, contrariamente a quanto preconizzato, la repubblica dei cittadini, bensì quella delle lobby, degli interessi particolari, quando non individuali, con un pesante riflesso sulle capacità di sintesi e quindi di funzionalità dei consessi elettivi e delle istituzioni a essi riferite. Una regressione che porta sinistramente alla mente le pagine di Gaetano Salvemini sulla democrazia notabilare, che con la sua impotenza aprì la strada al fascismo. La retorica della repubblica dei cittadini utilizzata all’inizio degli anni novanta si nutriva dell’oggettiva inadeguatezza delle forze politiche, ma anche di ostilità storiche delle élite marginalizzate dall’avvento della democrazia di massa, comprese quelle di ispirazione progressista. Ma proprio l’ampiezza e l’eterogeneità di quel fronte impedì l’affermazione di un nuovo modello di rappresentanza producendo una indistinta invettiva contro la politica. Il leaderismo e la personalizzazione sono per questo apparsi come la via per la modernizzazione senza aggettivazioni ulteriori.

Del resto proprio i leader, in parallelo a quanto avveniva nel resto dell’occidente, apparivano come via funzionale a dare proiezione politica a domande e interessi che non trovavano più un riferimento in progetti ormai privi di respiro e di identità. In Italia, il leaderismo mediatico, con istituzioni fragili e un circuito comunicativo condizionato e distorto, si è rapidamente imbevuto di accenti populistici. I leader in difficoltà per l’arretratezza degli apparati pubblici e degli assetti istituzionali, stretti dalle compatibilità economiche e finanziarie, si sono prodotti nella ricerca di nemici interni ed esterni, nella denuncia di complotti e trame in grado di giustificare la loro impotenza. Il tutto, accompagnato dall’esaltazione della capacità carismatica di interpretare la volontà popolare con la costante contrapposizione tra consenso e legalità costituzionale.

È stato questo anche un modo per risolvere le spinte contraddittorie e talvolta contrapposte degli elettorati di riferimento, il mezzo per tenere insieme secessionismi e spesa pubblica improduttiva, impresa evoluta e sottoproletariato. Al massimo della personalizzazione, accompagnata dall’appello diretto al popolo, ha corrisposto un minimo storico nella capacità della politica di incidere concretamente nella realtà. La caduta verticale della qualità delle classi dirigenti non è che la conseguenza di questo fenomeno a livello nazionale e locale. La coesistenza di questi profili ha determinato un modello di post partito nel quale coesistono elementi di innovazione nell’utilizzo dei media e della rete, quasi sempre in modo unidirezionale, e arcaiche pratiche clientelari di gestione e costruzione del consenso.

È una questione che si pone per intero anche al Pd la cui deriva leaderistica precede, al di là delle affermazioni di principio, la stagione di Renzi. La schiacciante vittoria di Renzi alle primarie è anzi in parte frutto del fatto che a una proposta di innovazione declinata per l’ennesima volta in una versione leaderistica si è contrapposta una ipotesi di trasformazione collettiva corretta ma resa non credibile proprio dalla crisi del modello organizzativo di partito a cui veniva associata. Anni di discussione sull’esigenza di promuovere il radicamento in presenza di dinamiche concrete di sradicamento indotte da un correntismo che ha mortificato qualunque genuina spinta partecipativa hanno aperto la via a un modello di partito che rischia di risolvere la sua funzione nell’indizione di primarie e nella mobilitazione elettorale talvolta neppure in grado di coordinare gli eletti. Un modello di partito inutilizzabile persino come cassa di risonanza per l’attività di governo.

Noi pensiamo che per cambiare nel profondo la società italiana, aggredire le sue disuguaglianze e i suoi squilibri, occorra una forza in grado di produrre elaborazione e ricerca, di formare generazioni di militanti consapevoli e appassionati. Un cambiamento duraturo in grado di battere le rendite e i privilegi è possibile soltanto se sorretto da un’azione organizzata e collettiva, tanto più in un paese come il nostro nel quale gli apparati pubblici per un lungo periodo rischiano di essere più l’oggetto che il soggetto della trasformazione necessaria. La stessa diffidenza nei confronti di ogni forma di delega, tipica di questa fase storica, può essere affrontata soltanto con nuove forme di partecipazione in grado di responsabilizzare chi esprime domande e punti di vista particolari. Ma quest’ambizione reclama innovazione. Non sarà riesumando le vecchie forme determinate nel secolo scorso che potremo contrastare la deriva plebiscitaria tanto forte nella scena politica italiana.

E innovare significa anche rischiare, battersi per far vivere il partito a partire dalla ripresa del tesseramento e al contempo chiedere forme nuove di partecipazione dal basso alle decisioni, contribuire allo sviluppo di una rete diffusa di luoghi, anche informali, in grado di produrre cultura politica, riflessione programmatica.

Il modo migliore per stimolare questo processo è porsi dal punto di vista di tutto il partito, prefigurando con la propria azione il Pd che serve al paese. E mostrare così un’ipotesi di Pd in nuce, in grado di influenzare la discussione interna anche con azioni concrete di costruzione e sperimentazione organizzativa: fare formazione, promuovere mobilitazione verso obiettivi collettivi concreti, realizzare campagne d’ascolto, provare a intrecciare la nostra discussione con quella di pezzi di società. Insomma, fare noi ora ciò che crediamo debba fare tutto il Pd.