Il vero problema dietro il modello Amazon

Dopo aver gridato «al lupo, al lupo» per trent’anni, il lupo alla fine è arrivato. Nessuno in verità sembra molto contento, però bisogna guardare con favore al fatto che almeno la coscienza dell’arrivo del lupo si è diffusa con una velocità incredibile. Come ha ricordato Raffaele Ventura, pure la stampa di orientamento liberale, di fronte allo sciopero dei lavoratori di Amazon, non ha trovato il coraggio di tirare fuori la solita artiglieria di luoghi comuni su riforme strutturali mancate, scarsa flessibilità e ostacoli frapposti dai carristi del sindacato sovietico al naturale funzionamento del mercato. Eppure solo dieci anni fa anche i più progressisti erano in prima fila a spellarsi le mani ascoltando il Censis che forniva le sue interpretazioni consolatorie di quel che invece già allora andava chiamato con il suo vero nome: decadenza industriale e produttiva del paese. Una volta arrivati al funerale ci si chiede come sarà possibile resuscitare quello che adesso tutti dicono essere morto. Ma io penso che la situazione, da un certo punto di vista, sia persino più grave: è come quando uno crede di vivere una grande storia d’amore e a un certo punto si accorge che non era vero niente. È una grande delusione, ma era anche – purtroppo – estremamente prevedibile e prevenibile.

Sarebbe stato necessario un cambio di paradigma, la capacità di ristrutturare manifattura e servizi, cambiare modelli organizzativi e manageriali, ma anche modelli culturali, per adattare l’Italia a una globalizzazione che si è messa a fare sul serio. Invece, incredibilmente, è iniziato un lungo periodo di autocelebrazione, con le classi dirigenti del paese che hanno saputo solo assecondare e proteggere, ma non guidare. Poi è scoppiata la crisi ed è finita la festa. Il livello dell’acqua è salito e in molti sono affogati. Potremmo chiamarla «distruzione creatrice», ma forse è meglio non disturbare Schumpeter.

Tutta colpa delle riforme del mercato del lavoro, dei nuovi modelli di contrattazione salariale e – da ultimo – dell’abolizione dell’articolo 18? A leggere i quotidiani sembrerebbe di sì. Paradossalmente, coloro che per un quindicennio almeno hanno criticato (giustamente) l’egemonia culturale giuslavorista che individuava nelle troppe regole del mercato del lavoro l’unica causa di tutti i malanni del nostro paese, si ritrovano ora a usare (al contrario) le stesse argomentazioni di quelli che criticavano. Con l’applauso convinto di chi quelle prediche giuslavoristiche ha sostenuto, incoraggiato e propagandato per anni.

Basterebbe questo per capire che dietro l’unanime sostegno alla causa dei lavoratori c’è la fregatura, che infatti non ha tardato ad arrivare. Perché una lettura del genere non può che portare dritto dritto alla conclusione che sì, questi dipendenti/neo-schiavi di Amazon dovrebbero avere salari più dignitosi, qualche diritto in più e maggiori tutele, ma che si fa se poi queste multinazionali delocalizzano e se ne vanno in Cina o in India lasciandoci con un sacco di disoccupati? È chiaro che per non restare intrappolati fra il leghismo-isolazionista («fermiamo il mondo, scendiamo e tutto si sistema») e il fatalismo-disfattista («non possiamo farci niente») è necessario rifuggire da letture semplicistiche e rimettere al centro quelle politiche capaci di risolvere il problema che né la prima né la seconda rivoluzione post-industriale italiana sono riuscite a risolvere: innalzare la produttività del sistema.

Gli economisti, si sa, sono forse dei buoni diagnostici, ma come terapeuti non valgono molto. Non voglio provare a smentire questa teoria e mi limito a segnalare tre evidenze empiriche su cui c’è un certo consenso a livello internazionale. La prima è che esiste un forte legame fra produttività e meccanismi di selezione del management di una azienda. La seconda è che padroni e dirigenti troppo anziani tendono a ostacolare la capacità innovativa delle imprese. La terza è che sono proprio la scarsa innovazione e la bassa produttività a spingere le imprese verso relazioni di lavoro più instabili, precarie e mal pagate. L’Italia è messa male su tutti e tre questi fronti ed è questa la ragione per cui il modello Amazon sta travalicando i confini aziendali e sta attecchendo anche in strutture produttive nostrane. È da qui che bisogna ripartire.