Fiscal Chernobyl

Qualche giorno fa, in una sessione intensiva di bingelistening, ho ascoltato le cinque puntate del podcast che ha accompagnato l’uscita di ogni puntata di Chernobyl, la miniserie coprodotta con Hbo della quale ha parlato e scritto mezzo mondo, Left Wing inclusa. Ho sentito Craig Mazin, l’autore, sceneggiatore e produttore di quello che è considerato l’evento televisivo dell’anno raccontare a Peter Sagal che la domanda sulla quale si reggono tutte le cinque ore della serie gli si era incistata da qualche parte del cervello e non se ne era andata più: what is the cost of lies, qual è il costo delle bugie? E poi l’ho sentito dire, con la fede nel giusto e nel buono che solo Tex Willer e certi americani riescono ad avere e professare, che era fermamente convinto che la verità prima o poi viene fuori, che ti presenta il conto e non puoi fare finta di niente.

È stato in quel momento, fermo a un semaforo nell’intermittente forno dell’estate milanese, che mi è tornata in mente una scena che mi sta accompagnando da poco meno di due anni. Eravamo tutti e nove, quelli del gruppo bizzarramente assortito che aveva investito qualche giorno della sua vita e qualche centinaio di euro dei suoi risparmi per andare a vedere i resti di una catastrofe nucleare; stavamo all’interno di una torre di raffreddamento, un prodigio incompiuto ed enorme, messi in semicerchio davanti a Igor, il ragazzo di Kiev che ci faceva da guida. Qualcuno gli aveva appena chiesto quale sarebbe stato il destino, cosa ne avrebbero fatto di quel posto che ha la stessa indefinibile maestosità di una cattedrale medievale e l’identica mancanza di futuro di un giocattolo rotto, e per una frazione di secondo, prima di rispondere, vedemmo passargli sul volto l’espressione di chi si chiedeva se eravamo veramente così cretini da aver fatto sul serio quella domanda.

Fu giusto un lampo, un soffio. Poi Igor rispose con una sola parola: «Nulla». E noi gli chiedemmo di rimando ma come nulla, Igor, cosa vuol dire nulla? Vuol dire, ci spiegò tranquillo e serio e rassegnato, che non si poteva fare nulla, perché l’Ucraina aveva le casse vuote ed era in guerra anche se non dichiarata e si teneva a galla solo con i fondi che arrivavano in qualche modo dall’estero e insomma non c’erano né soldi né persone né tecnologie, e anche se ci fossero stati che ci guardassimo intorno, lo vedevamo quanto era grosso quel posto, lo sapevamo che ci trovavamo a due soli chilometri dalla Centrale e se qualcuno avesse fatto implodere tutto quanto si sarebbe prodotto un microterremoto che avrebbe fatto venir giù ancora la Centrale con tutto il suo arco splendente, pensavamo davvero che fosse possibile? Allora, di nuovo, parlò uno per tutti, gli disse con un misto di incredulità e timore scusa Igor, ma non potrà rimanere tutto così per sempre, abbiamo visto i palazzi di Pryp”jat’ che vengono giù da soli, succederà la stessa cosa anche qui, cosa farete? Igor fece semplicemente passare lo sguardo oltre la barriera dei nostri corpi guardando verso l’esterno della torre di raffreddamento, si mise le mani nelle tasche dei pantaloni della tuta e si incamminò facendoci capire che era l’ora di andare, che dovevamo seguirlo, e disse: «Non lo so. Non lo sa nessuno, cosa faremo».

Eravamo di fronte e in mezzo al costo delle bugie. Che erano state smascherate, e da molto tempo: chi aveva creduto che l’energia nucleare sovietica fosse sicura e infallibile come il socialismo scientifico si trovava una terra inabitabile per chissà quante centinaia di anni. Come chi, pensavo fermo al semaforo, aveva creduto al taglio delle tasse e si sarebbe ritrovato l’aumento dell’Iva; la verità, come pensano Tex Willer e Craig Mazin e i bravi americani come lui, era venuta a galla: ma troppo tardi, e il conto restava lì sul tavolo, in attesa di qualcuno che lo pagasse.