Vedo con un po’ di stupore che da alcuni giorni i vertici della Rai mostrano un inedito interesse per le questioni della cultura in tv. Bene, mi dico. Ma ci sono anche altre cose, probabilmente più urticanti, che sarebbe il caso di dire. La televisione non è un tubo dentro il quale si può infilare qualsiasi prodotto – culturale o meno – pensando che arriverà al pubblico a casa con gli stessi caratteri che aveva al momento della produzione. Il prodotto televisivo è – scusate la tautologia – prodotto televisivo, perché la potenza del medium modifica, talvolta condiziona profondamente, il prodotto pensato per una fruizione non televisiva. Un concerto o uno spettacolo teatrale sono filtrati dal punto di vista imposto dalla regia televisiva. Lo stesso si potrebbe dire della diretta streaming di una visita a una mostra: la regia si sofferma su dettagli e opere alle quali io, forse, avrei dato minore attenzione e ne trascura altri sui quali mi sarei soffermata per molto più tempo. Il che, ovviamente, non toglie che la tv possa fare molto per la cultura e che possa essere un poderoso strumento di disseminazione. Ma servono il pensiero, la creatività, le idee, la capacità di creare racconto. E di queste capacità il servizio pubblico ha dato prova, anche se non con la continuità auspicabile.
Quello che temo, considerando argomenti e toni del dibattito sul ruolo del servizio pubblico per la cultura, è che si scelga di continuare a fare, più di prima e con maggiore ostinazione, ciò che si è dimostrato sostanzialmente inefficace per conquistare nuovo pubblico, invece che provare a fare cose diverse, nuove. Insomma, mi sembra – ma probabilmente mi sbaglio io – che si continui a pensare alla cultura come a un insieme molto limitato di temi (il Grande Cinema, la Grande Musica, la Grande Letteratura etc.) che vanno offerti a una fetta di pubblico necessariamente limitata, che già fruisce di quei prodotti – per di più senza mediazioni – e che in tempi normali non è neanche un gran fruitore di tv. Chi rimane fuori da questo ragionamento è, invece, chi non fruisce della cultura né attraverso la tv né dal vivo. Mi riferisco a quell’88,9 percento di cittadini sopra i 6 anni che secondo i dati Istat nel 2017 non ha ascoltato un concerto di musica classica, al 79,1 percento che non è andato a teatro, al 67,5 percento che non ha visitato mostre o musei e anche a quel 57,7 percento che non ha letto un libro. Invertire questa tendenza dovrebbe essere l’obiettivo primario, anche se non unico, del servizio pubblico.
Ma sono anche convinta che per raggiungere il nostro traguardo dovremmo ripensare a cosa definiamo, prima di tutto in tv, culturale: sono alcuni temi a meritare questa definizione o è il modo in cui si presentano i temi? Intendo dire che un pessimo racconto della Cappella Sistina o un brutto programma sul teatro siano molto meno “culturali” di un racconto coinvolgente e intelligente su come si è formata una collezione di scatole di fiammiferi, o sulla musica neomelodica, o su tutti quei fenomeni che in molti si ostinano a considerare bassi, trascurabili, effimeri. E invece basterebbe ricordare come gli stessi Lumière definirono il cinema, «un’invenzione senza futuro», per procedere con estrema cautela nel giudicare la capacità di una forma creativa o di un linguaggio di attraversare i secoli e influenzare la società.
Si è parlato anche, da parte dei vertici Rai, del fatto che sarebbe compito di chi comunica «rendere semplice la complessità»: io, invece, sono umilmente dell’idea, che il compito di chi fa servizio pubblico sia quello di offrire gli strumenti per decodificare la complessità. Non foss’altro perché la semplificazione della complessità porta con sé una selezione, una riduzione degli elementi in gioco. La semplificazione non innalza la strumentazione culturale e intellettuale del fruitore. Offre, invece, a chi è parte attiva della comunicazione, il potere enorme – e forse indebito – di interpretare quella complessità, e quindi di discriminare alcuni elementi. Il servizio pubblico deve fornire gli strumenti di interpretazione e farlo tenendo al centro non il protagonismo di chi racconta ma le esigenze di chi vuole capire; non i bisogni di chi già sa ma le urgenze di chi vuol sapere. E questo la Rai lo fa, e lo ha fatto anche in passato. Ci sono Rai Storia, Rai 5 e Rai Scuola e ci sono i canali per bambini e ragazzi che spesso operano con attenzione e delicatezza in quel senso.
Io vorrei, soprattutto oggi, che si moltiplicassero i racconti, si sperimentassero nuovi linguaggi, nuovi narratori, dando, soprattutto, voce a chi non ne ha: a chi produce cultura e creatività; a chi vorrebbe sapere di più ma anche a chi è più passivo e disinteressato, che è esattamente quel pubblico potenziale che dovremmo saper conquistare proprio attraverso prodotti nuovi, idee, contaminazioni, alfabetizzazione culturale, coinvolgimento attivo. Sono troppi anni che insistiamo nel voler offrire prodotti evidentemente difficili a un pubblico inesperto e i risultati li vediamo nei numeri dello share di alcuni canali specializzati, forse troppo specializzati. Moltiplicare quel genere di prodotto non porterà uno spettatore in più al servizio pubblico, Forse, invece, cambiare strategia potrebbe essere più efficace, potrebbe alimentare il consumo culturale, dare più strumenti ai cittadini, spazio e opportunità a chi non ne ha. Soprattutto perché siamo in un paese in cui l’ascensore sociale è fermo da troppo tempo; in cui le giovani generazioni trovano poco spazio; in cui le voci femminili, soprattutto quelle delle esperte e delle invisibili, sono poche; in cui ci si accorge dei germogli culturali solo quando arrivano al grande pubblico; in cui tantissimi talenti si estinguono prima di esprimersi completamente a causa della disattenzione delle istituzioni e dell’egoismo di chi gode di rendite di posizione che appaiono inamovibili.
Questo, ripeto, vorrei facesse il servizio pubblico per tutti noi: darci strumenti attraenti e privi di pregiudizi, metterci di fronte alla complessità e, almeno, spiegarci quali potrebbero essere i mezzi per indagarla. Dovrebbe capire chi siamo noi che guardiamo la tv e che preferiamo quasi ogni altra cosa ai concerti e al teatro in tv e perché ciò accade. E poi dovrebbe, finalmente, persuaderci con i fatti che invece la cultura può essere divertente e attraente se chi svolge il racconto è davvero bravo, se si procede per gradi, attraverso un processo costante, esattamente come quando si impara a scrivere o si comprendono le regole (e quindi la bellezza) del calcio o del basket.
Non bastano un Grande Film o un Grande Concerto (per quanto in prima serata): serve, piuttosto, disseminare il nostro palinsesto di strumenti per capire il mondo, serve onestà intellettuale nell’informazione e nell’intrattenimento, serve usare per bene le parole, servono curiosità, creatività e innovazione. Per fare questo occorrono più investimenti, economici, organizzativi, di attenzione e di risorse umane, da parte della Rai: Cultura, Teche, Documentari, Radio, Nuovi Format, Ufficio Studi sono ancora le cenerentole del servizio pubblico. L’interesse e l’attenzione per la cultura non può essere occasionale o determinato solo da circostanze straordinarie. O il servizio pubblico decide di mettere al centro della sua attività un approccio culturale, creativo e innovativo, aperto, sociale al prodotto televisivo, oppure siamo destinati a non distinguerci dalla tv commerciale e a perdere la nostra ragione d’essere. E il tempo, questa volta, non è dalla nostra parte.