Approccio olistico alla pandemia

Premessa

La violenza con cui siamo stati colpiti dalla seconda ondata di contagi da Covid-19 ha dimostrato che i nostri sistemi di difesa, messi a punto al prezzo di enormi sacrifici nel pieno del primo assalto, non sono stati sufficienti a proteggerci dagli attacchi successivi. E se dovessero restare invariati, non lo saranno neanche nel prossimo futuro. Sappiamo che, nella migliore delle ipotesi, prima della fine del 2021 sarà molto difficile giungere a una diffusione dei vaccini tale da metterci definitivamente al sicuro. Il primo problema, quindi, è cosa fare fino a quel momento. Il secondo problema è il valore di quel “definitivamente”: cosa fare, cioè, nel caso in cui un nuovo virus (o una mutazione dello stesso) ci riporti bruscamente al punto di partenza.

L’obiettivo di questa analisi e proposta è individuare un modo di uscire dalla spirale in cui rischiamo di avvitarci, sommando agli enormi costi economici e sociali delle restrizioni il prezzo di un numero inaccettabile di morti. Da questo punto di vista, anche il dibattito che tende a contrapporre le ragioni dell’economia e quelle della salute appare del tutto fuorviante, perché al momento i dati ci dicono che non abbiamo la forza di difendere né le une né le altre.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Italia è stata protagonista di una mobilitazione straordinaria del Parlamento, della scienza e della medicina sul campo, delle parrocchie, del movimento dei lavoratori e delle donne, per liberarsi da un male che aveva distrutto l’agricoltura del Paese e portato nelle zone più difficili la vita media a 22 anni. Un male che colpiva soprattutto i più poveri tra i lavoratori e le lavoratrici della terra, ma a causa del quale perse la vita anche il Conte di Cavour. L’unica strada allora percorribile per l’Italia fu una mobilitazione straordinaria che investì quasi ogni aspetto della vita sociale delle campagne, dalla creazione delle stazioni sanitarie al coinvolgimento delle partorienti per verificare la diffusione della malattia, dalle bonifiche delle zone paludose all’innalzamento del livello medio di istruzione. Per questa strada, un’Italia ben più povera e arretrata della nostra, ha sconfitto la sua più nota ed emblematica malattia, pur senza vaccino.

Fino a oggi, per limitare il contagio da Covid-19, abbiamo fatto ricorso, da un lato, alle misure di protezione individuale, come l’uso delle mascherine, il lavaggio frequente delle mani e il distanziamento; dall’altro, a chiusure e interruzioni delle attività sociali ed economiche, in forma più o meno intensa a seconda dell’andamento dell’indice di contagio. Riteniamo che il naturale complemento di una tale strategia sia mettere in campo un modello italiano di prevenzione e sorveglianza che ci consenta non solo di agire tempestivamente in presenza di un incremento dell’indice di contagio, ma di intervenire a monte, prima cioè che riparta la spirale dei contagi e delle restrizioni, dotandoci di strumenti all’avanguardia, come il Paese ha già dimostrato di saper fare negli anni in cui ha sconfitto la malaria. Solo così potremo spezzare finalmente quel tragico circolo vizioso in cui siamo imprigionati da mesi, proteggendo a un tempo la salute e l’economia. Per farlo, però, occorre anzitutto un approccio laico e pragmatico, capace di mettere a confronto le diverse esperienze e di imparare dai propri (e altrui) errori.

Gestione

Il Ministro della Salute è responsabile della tutela della salute e indirizza le azioni di contrasto alla diffusione della pandemia. Il ministro si avvale di due organi di consulenza: l’Istituto Superiore di Sanità e Il Consiglio Superiore di Sanità che forniscono pareri tecnici nel settore dei farmaci, dei dispositivi medicali, dell’igiene, delle malattie trasmissibili, degli alimenti, della
veterinaria e della zoonosi (malattie trasmesse dagli animali).

Per affrontare in modo tempestivo le problematiche legate all’epidemia è stato creato il Comitato Tecnico Scientifico (CTS), organo della Protezione Civile che dipende direttamente dal Presidente del Consiglio. Il Comitato Tecnico Scientifico è stato formato includendo membri dell’Istituto Superiore di Sanità, del Consiglio Superiore di Sanità e delegati di vari ministeri, senza tenere conto delle competenze specifiche, creando una situazione nella quale i rappresentanti degli organi di consulenza istituzionali (ISS e CSS) dovrebbero agire come esperti indipendenti dei referenti istituzionali a cui facevano capo.

La composizione del CTS e la mancanza di competenze scientifiche nei settori della microbiologia, della genetica, della statistica e in parte della epidemiologia riflette la natura delle affiliazioni dei componenti che ha pesantemente condizionato sia le scelte iniziali che quelle che hanno portato alla situazione nella quale si trova l’Italia in questo momento. Un nuovo approccio alla gestione dell’epidemia non dovrebbe prescindere da un arricchimento delle competenze del CTS per affrontare le quatto urgenze: vaccinazione di massa, controllo emergenza
delle varianti del virus, interruzione delle catene di contagio e riapertura in sicurezza della scuola.

Vaccinazione

La situazione attuale è caratterizzata da ritardi nella consegna dei vaccini da parte dei produttori e da un’impreparazione strutturale e organizzativa nella logistica della distribuzione e somministrazione dei vaccini più efficaci (Pfizer e Moderna). L’autorizzazione del vaccino di AstraZeneca risolve parzialmente il problema in quanto meno efficace dei primi e più facilmente neutralizzato dalle varianti del virus.

Per tempo l’Italia e l’Europa dovrebbero, accanto all’acquisto di ingenti quantità di vaccini, verificare la capacità produttiva e/o negoziare le licenze per la produzione sul nostro territorio e comunque accompagnare gli investimenti delle aziende farmaceutiche al fine di prevedere impianti produttivi, anche in appalto, nel nostro Paese (la Germania ha investito 375 milioni di euro per sostenere il nuovo impianto della BioNTech a Marburgo che dovrebbe essere operativo già da febbraio!).
Un altro elemento di criticità è dato dal cosiddetto “flusso teso” che l’Italia non garantisce alla Pfizer BioNTech. Non saremmo stati, e non siamo tuttora, per “nostra” ammissione (i dati delle somministrazioni per quanto caricati con ritardo e privi di specifiche sulla piattaforma open lo dimostrano), in grado di provvedere all’immediato utilizzo dei vaccini che ci sono stati consegnati.

Anche questa è la ragione della così significativa riduzione delle consegne di queste settimane (il 29% in meno a fronte di una riduzione dell’8% in Europa). Andrebbe pertanto sviluppata una logistica dedicata a questo tipo di vaccino, garantendo la conservazione della catena del freddo a -70°C in modo diffuso sul territorio. Peraltro questa criticità si presenterà anche con il vaccino di Moderna (logistica dedicata a -30°C), ragion per la quale va garantito un flusso “teso” di somministrazioni giornaliere che superi largamente le 300mila unità. Bisognerebbe identificare sul territorio nazionale produttori di refrigeratori ultrafreddo e finanziare sviluppo di macchine di dimensioni ridotte da posizionare presso medici, farmacie e presidi ospedalieri favorendo così la distribuzione in modo capillare.

Bisogna inoltre comprendere cosa aspettarsi al raggiungimento della cosiddetta immunità di gregge: quando si è vaccinato circa il 75% della popolazione si raggiunge una soglia di protezione collettiva per cui la capacità di trasmissione del virus è pari a 1 in assenza di ulteriori misure di protezione o distanziamento sociale. In questa situazione una persona infetta ha la probabilità di trasmettere la malattia ad un’altra persona.

Questo significa che il numero delle infezioni rimane costante ma il virus è sempre potenzialmente in grado di causare focolai e colpire persone vulnerabili. Il raggiungimento dell’immunità di gregge deve essere accompagnato dal potenziamento massiccio della capacità di effettuare tamponi molecolari e tracciamento per bloccare le catene di trasmissione.

Varianti

Il virus, come ogni organismo che si riproduce e si moltiplica, deve copiare il proprio patrimonio genetico (in questo caso un filamento di RNA) che contiene tutte le informazioni che gli consentono di invadere una cellula, moltiplicarsi, coordinare il proprio impacchettamento e quindi essere pronto a infettare nuove cellule. Questo processo non è esente da errori. All’aumentare del numero delle persone infette, cresce il numero degli eventi di replicazione, e dunque la possibilità che errori di copiatura generino varianti del genoma.

La maggior parte di queste varianti è destinata a scomparire rapidamente, perché è molto più probabile che una mutazione interferisca con una funzione biologica anziché conferire un vantaggio. Ma più sono i casi, più aumenta la probabilità che si generi qualche variante in grado di affermarsi, in quanto più contagiosa o capace di eludere la risposta immunitaria.

Impatto delle varianti sulla immunità di gregge

È bene ricordare che le nuove varianti possono rappresentare un problema per la vaccinazione anche se continuano a essere riconosciute dai vaccini disponibili, perché più è alto l’R0 più si alza la soglia per l’immunità di gregge. Si può calcolare che questa soglia sia del 70% circa per la variante B.1.1.7 (la cosiddetta inglese), mentre il ceppo prevalente in questo momento in Italia ha una soglia più bassa di quasi dieci punti percentuali. Se potessimo dare a tutti un vaccino efficace al 90%, per fermare la variante inglese occorrerebbe vaccinare oltre l’80% della popolazione. Per problemi di approvvigionamento, però, dovremmo usare anche vaccini con un’efficacia inferiore, ragion per cui la diffusione di una variante contagiosa come quella identificata nel Regno Unito ci obbligherebbe a compiere l’impresa pressoché impossibile di vaccinare la totalità, o quasi, della popolazione.

Impatto delle varianti sulla efficacia dei vaccini

Mentre si vaccina la popolazione in presenza di una forte circolazione del virus, dunque, è necessario essere consapevoli che potranno generarsi delle varianti resistenti al vaccino e che godranno di un vantaggio (pressione selettiva) rispetto a quelle bloccate dal vaccino. Un’ipotetica variante resistente sarebbe fortemente favorita in una popolazione di vaccinati anche se fosse poco contagiosa. Quando la trasmissione è elevata, il virus ha più opportunità di generare varianti diventando via via più trasmissibile. A questo punto le basterebbe un modesto vantaggio in termini di indice di riproduzione (R0) per affermarsi sugli altri ceppi. In questo che è lo scenario peggiore, i guariti tornerebbero a infettarsi e le industrie farmaceutiche dovrebbero aggiornare la composizione dei vaccini, concedendo al virus un vantaggio di mesi.

Per rallentare il ticchettio delle mutazioni occorre raffreddare la circolazione virale e tenere conto delle dinamiche evolutive nella programmazione della campagna vaccinale. La soluzione ideale sarebbe immunizzare il maggior numero di persone nel più breve tempo possibile in una situazione caratterizzata da una bassa trasmissione.

Questo risultato potrebbe essere ottenuto affiancando alle misure di contenimento (zone rosse e arancioni) una strategia di sorveglianza attiva, per interrompere le catene di contagio (vedi sotto), evitando di favorire l’emergenza di ceppi problematici e dunque proteggendo l’efficacia della campagna di immunizzazione.

Al tempo stesso è necessario potenziare notevolmente gli sforzi di monitoraggio e allerta per le varianti. Bisogna varare al più presto un piano nazionale per il monitoraggio delle varianti, coinvolgendo centri di ricerca e istituti universitari (che hanno le competenze di sequenziamento e analisi). Sequenziando un numero sufficiente di tamponi, identificando le mutazioni in posizioni strategiche, isolando i rispettivi ceppi e verificando sperimentalmente se vengono neutralizzati dal siero dei vaccinati, è possibile scoprire tempestivamente le varianti emergenti più pericolose e fermarle.

Le varianti scoperte in Gran Bretagna, Sudafrica e Brasile rappresentano un serio campanello d’allarme, non solo per la maggior contagiosità e per i sospetti di resistenza al vaccino che aleggiano sulla terza in particolare. La loro comparsa a breve distanza l’una dall’altra suggerisce che il coronavirus potrebbe avere in serbo altre sorprese. In caso di presenza di varianti resistenti al vaccino si deve immediatamente imporre misure restrittive tipo “Codogno” per impedire che si diffondano sul territorio nazionale.

Tracciamento attivo

Nel caso studio di Vo’, l’identificazione di tutti i positivi, in buona parte asintomatici, ha consentito di interrompere tutte le catene di trasmissione, lasciando gli abitanti non contagiati liberi di muoversi all’interno del Paese. È bastato isolare soltanto i positivi, mentre tutti gli altri hanno continuato a vivere una vita sostanzialmente normale, all’interno della zona delimitata, per spegnere in modo duraturo il focolaio, azzerando per diversi mesi i nuovi casi.

Ora che siamo alle prese con la seconda ondata epidemica, destinata purtroppo a ripetersi in successive nuove ondate con alternarsi di misure restrittive e loro rilascio, abbiamo l’opportunità di mettere a frutto questi insegnamenti e di elaborare un modello integrato che possa funzionare anche in realtà più estese e complesse di un piccolo comune.

Il punto di fondo è provare a guardare allo stadio dell’epidemia, e all’evoluzione del contagio, come il risultato complesso e combinato dei comportamenti adottati tanto dalla popolazione quanto dalle politiche pubbliche di testing, tracciamento e isolamento dei contagiati, integrando banche dati di diversa natura.

Il numero delle persone infettate quotidianamente dipende da tre fattori:

1) l’abilità del virus di trasmettersi da una persona all’altra;
2) il comportamento collettivo;
3) l’abilità del Sistema sanitario di identificare e isolare prontamente i positivi sintomatici e asintomatici.

A seconda dell’efficacia degli interventi approntati dal Sistema sanitario e dell’adeguatezza del comportamento collettivo, si stabilisce un equilibrio precario con il virus, che determina il numero delle persone che si infettano ogni giorno. È fondamentale capire questa dinamica per mantenere la curva epidemica più bassa possibile, proteggere le persone vulnerabili e scongiurare al tempo stesso il rischio che si rendano necessari altri lockdown periodici.

Le misure di contenimento sono utili ma hanno un effetto temporaneo. Quando le politiche attualmente in vigore avranno finalmente ridotto i contagi in modo sostanziale, sarebbe un grave errore allentare le restrizioni al comportamento collettivo senza aver predisposto un adeguato sistema di sorveglianza. Il numero dei casi infatti tornerebbe a crescere e l’unica opzione sul tavolo sarebbe ancora una volta quella emergenziale praticata finora, con costi sociali ed economici insostenibili.

Per uscire da questa spirale non sarà sufficiente l’arrivo di uno o più vaccini, che inizialmente potranno essere distribuiti solo a una parte minoritaria della popolazione e quindi non incideranno in modo determinante sulla curva epidemica. Il tempo a disposizione per consolidare i risultati dei sacrifici fatti durante la seconda ondata e prevenire la terza ondata è drammaticamente scarso e per non arrivare tardi occorre attivarsi rapidamente in tutta Italia per creare le condizioni necessarie al successo della strategia complessiva.

A questo scopo serve un potenziamento della capacità di testing nazionale, un rafforzamento dell’organizzazione logistica per rendere i test rapidamente disponibili dove necessario (anche attraverso il ricorso a laboratori mobili) e la creazione di un supporto IT che incroci le banche dati disponibili per monitorare le dinamiche di trasmissione.
Per raggiungere questo obiettivo bisognerebbe migliorare significativamente la nostra capacità di identificare le persone infette e i loro contatti superando i limiti operativi e di scalabilità del contact tracing classico e allo stesso tempo potenziando gli strumenti informatici disponibili.

Network testing

Consiste nel testare in modo sistematico, con i test molecolari, tutte le persone che condividono abitualmente lo spazio di interazione con ciascun positivo. Quindi, anziché partire dai contagiati e individuare, attraverso una ricostruzione a ritroso, i loro contatti effettivi intercorsi con altri soggetti ben identificati, come nel caso del contact tracing, si tratta di individuare con un modello top-down le aree in cui l’interazione può essere avvenuta, anche in ragione della intensità e densità di frequenza delle stesse da parte di più individui. Dobbiamo immaginare questo spazio come una struttura tridimensionale composta da diversi livelli – ambiente di lavoro, scuola, famiglia, amici, vicini di casa, parenti – con interazioni sia orizzontali che verticali. Supponiamo che una persona Y si infetti. È estremamente probabile che la persona X che l’ha contagiata sia all’interno di questo spazio di interazione, in cui si trovano anche i contatti Z e W che rischiano di essere infettati a loro volta da Y. Se a tutte queste persone viene fatto un test molecolare e coloro che risultano positivi vengono isolati e trattati, la catena di trasmissione risulterà interrotta. I vantaggi logistici e di efficienza rispetto al contact tracing derivano dal fatto che lo spazio di interazione è noto, quindi non è necessario ricorrere a indagini informatiche invasive, difficilmente scalabili, che richiedano un grande impiego di risorse umane.

Potenziamento degli strumenti informatici

Oggi l’app Immuni, che traccia, per coloro che l’hanno scaricata, contatti estremamente ravvicinati sotto certe condizioni, ci indica il contatto tra soggetti, ma non può rivelarci in quale ambiente il contatto sia avvenuto (e dunque ci fornisce solo una dimensione del contatto). Peraltro, la circostanza che una parte della popolazione non l’abbia scaricata, unitamente ad alcune difficoltà d’implementazione che ancora persistono, non consente di valorizzare al massimo, a fini di isolamento, trattamento e prevenzione, il dato che essa offre, anche in un orizzonte temporale estremamente ristretto. Inoltre, l’app Immuni non può in ogni fornire informazioni sul probabile numero di asintomatici con i quali si viene in contatto, né sugli spazi nei quali positivi e asintomatici interagiscono. Al fine di rendere funzionale il network testing occorrerebbe integrare tre tipologie di dati, naturalmente nel rispetto della vigente legislazione sulla tutela della privacy, ivi incluse le particolari condizioni di uso del dato in presenza di crisi ed emergenze sanitarie:
1) Dati di prossimità individuale circa l’incontro ravvicinato con persone risultate contagiate (App Immuni);
2) Dati di mobilità (e intensità/densità della frequentazione di più soggetti) nella disponibilità degli operatori di telefonia mobile (traffico attivato dalle cellule); 3) Dati sulla natura dello spazio fisico nel quale avvengono le interazioni a maggiore densità (dati Google Maps).
L’app Immuni troverebbe in questa strategia un’importante applicazione se si sperimentassero talune soluzioni volte a risolvere i problemi di utilizzo dell’app riscontrati finora. Parallelamente, come detto, oltre ai dati dell’app Immuni, l’utilizzo di altre tipologie di dati digitali aggregati, e dunque non problematici per il rispetto della privacy, come quelli sopra richiamati, consentirebbe di monitorare le potenziali aree di contagio e di disegnare tempestivamente nuove misure di contrasto alla pandemia.

Sviluppare capacita predittiva

Identificare i collegamenti tra i cluster di casi e scoprire se nelle vicinanze si trovano altre aree a rischio. Se nella città A esplode un focolaio significativo, attraverso i dati delle celle telefoniche è possibile individuare le città B e C con i più rilevanti flussi di persone da e verso il focolaio, e procedere con il network testing anche in queste aree.

Attraverso i community mobility report di Google, è possibile individuare le categorie di luoghi che, con la riduzione delle restrizioni, tornano a essere più frequentati dalle persone, e disegnare politiche di chiusura mirata e selettiva in caso di nuovi contagi maggiormente soggetti ad assembramenti. Si tratta solo di due esempi. Ma il passaggio dal paradigma del contact tracing a quello del network testing è anche un’occasione per definire nuove policy basate sui dati aggregati. Se in una data città le cellule telefoniche rilevassero un flusso intenso verso un centro vicino, dove la banca dati di Google segnala la presenza di un luogo attrattivo, ad esempio, potranno essere disposte misure proattive di intervento precoce. Per facilitare ulteriormente l’opera di testing e tracciamento, è consigliabile prevedere incentivi e misure a tutela dei casi sospetti (come, ripetiamo, i tamponi garantiti entro 24 ore a chi scarica l’app Immuni).

Si propone quindi di sperimentare il modello del network testing con l’impiego di banche dati integrate al fine di:

• Individuare i soggetti positivi
• Individuare le aree e i cluster a maggior mobilità/densità
• Effettuare il test a tutte le persone coinvolte nei cluster e nelle aree
• Procedere a isolamenti selettivi

Questo sistema può essere sperimentato in città modello selezionate ad hoc in modo da portare velocemente la diffusione del virus che prevede l’impiego di test molecolari secondo la strategia del network testing. La sperimentazione del modello permetterà di rendere funzionale l’integrazione della banche dati, misurarne l’efficacia, valutare l’impatto del network tracing, identificare costi e procedure per un’estensione nazionale di tale strategia.

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